racconti


Un'incantatrice di serpenti

Lei faceva paura. C’è ancora chi se la sogna di notte, come l’esame di maturità. Odi et amo, alcuni la amavano, altri banalmente il contrario. Oggi si direbbe “divisiva”. Non c’erano mezze misure con lei. 

In questo contribuiva il primo impatto. Ricordo quando andai alla formazione delle classi con la mia intrepida compagna della scuola media sperimentale Muratori: eravamo già due outsider, noi che venivamo dalla scuola del “disagio”. Ma avevamo imparato in quella scuola l’assertività, per cui non ci preoccupammo delle preppy girls che ci guardavano con disappunto, ma dell’aspetto da megera di quella che sarebbe stata la nostra insegnante unica (Greco, Latino, Italiano, Storia, Geografia per 18 ore settimanali). Quando la scuola iniziò ed entrammo in quel lugubre e tristo istituto in cui tutto concorreva a rendere la presenza mesta e sacrificale, scoprimmo invece la sua verve, la sua energia, la sua capacità di tenere viva l’attenzione senza mai alzarsi dalla cattedra, senza altri strumenti se non un gessetto e la sua voce. Un’incantatrice di serpenti. Così la amammo. 

Il suo sguardo, in un volto che già non era giovane, era penetrante e acuto come una lama. Così anche il suo giudizio, che non ometteva la sua personale visione delle cose: questo era l’elemento che feriva maggiormente chi era nella parte dell’Odi: di fatto, tutti volevano essere apprezzati da lei.

Ma la Pasini centellinava le sue approvazioni: se eri nel cerchio magico bene, altrimenti pace. Questo ovviamente non influiva sulla sua logica quasi protestante del voto: non regalava nulla, ma nulla toglieva. Semplicemente ti faceva sapere che in quel tema, ben scritto, senza errori, completo e coeso, avevi detto cose molto superficiali e conformiste. Te lo comunicava, così come provava a salvare dalla perfidia delle classi ginnasiali chi proveniva dalle campagne e non era figlio del notaio, del medico, del signor tale. Come nel “documentario” di Virzì Ovosodo, l’individuazione familiare dei primi giorni di scuola era un rito a cui non si sottraeva sostanzialmente nessuna delle docenti. Chi non era tra i nomi noti, era condannato ad una zona d’ombra sociale che a volte perdurava per tutti i cinque anni. E chi veniva dalla campagna era quasi un alieno. Non erano anni di corsi di recupero, di inclusione come mantra scolastico, ma a lei l’aspetto della possibilità per chi lo meritava, per chi poteva partire svantaggiato, semplicemente perché veniva dal forese la interessava molto. E quando falliva, cosa che accadeva spesso viste le condizioni in cui la scuola si realizzava, la cosa la prostrava e la rendeva ancora più esigente con chi era sopravvissuto grazie anche alla propria posizione di vantaggio sociale. 

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Il domatore

Pubblicato nell’antologia Concepts – Arte, Arpanet società editoriale, Milano 2006.

Il circo è un mondo a cerchio. Andate al circo. Uscite dal vostro mondo a rettangoli

Leger, alla fine della sua vita.


È nudo e vestito, allo stesso tempo. Un ossimoro fisico, il nostro domatore. Ha un corpo terso, con molte curve e cavità, pochi cedimenti alla rotondità. Occhi celesti su un corpo scuro e un sorriso che vaga. È fermo in questa posa da anni. 

Diventava intenso solo in prossimità dell’animale, quando schioccava la lingua e realizzava il mistero del rapporto uomo animale, come dicono i giornalisti. Non era da molto tempo con noi, questo è un fatto strano. Qui siamo una famiglia, cresciuti insieme, che ha smoccolato insieme, fornicato, cornificato. Sì, questo non è inerente. Non ricordo esattamente chi lo presentò, credo fu in un viaggio in Ungheria, direttamente, sì. Sì, lui era ungherese. Un misto rom e sapienza magiara, una potenza fisica notevole. Veniva a sostituire Sebastiano, un santo con le frecce al posto giusto, che però alla fine aveva optato per l’appartamento color vaniglia e la paga di allenatore. Niente più roulotte. Così trovammo il magiaro, o forse lui trovò noi. 

Tutte le donne quando lo videro sorrisero, segretamente. Finalmente nuovi geni, una bandiera cromosomica inesplorata. Lui emanava, come molti del suo mestiere, una pace fisica interiore. Aveva questo colorito miele che aiutava nel vedere la dolcezza scolpita nei suoi muscoli. Le donne lo adoravano, e credo anche molti uomini. 

Aspettò un po’ di tempo, eravamo già in Spagna, per socializzare con il gruppo. Un’attesa che preparò la tempesta ormonale successiva. Chi pensa che la dilazione sia un’arma esclusivamente femminile non conosce le regole non scritte della grammatica dell’attrazione. 

In Spagna, sotto gli ulivi, avvicinò Irene, una delle ballerine. Una donna giovane, snella e robusta, con i tratti armeni. Piuttosto esotica, anche se è di Latina. Le mise solo la mano sulla spalla e non ci fu bisogno di altro per accendere la miccia. 

Fu un fuoco fatuo: forse un tentativo di riscaldamento, per capire come funzionavano le cose. Ci sono reti invisibile e segrete nei gruppi che lavorano e vivono insieme, a volte nelle maglie si può nascondere un cappio e il nostro domatore era una persona attenta. Misurata. 

In Bretagna entrò nel camerino di Elena. Pioveva a dirotto quel giorno, poco pubblico allo spettacolo, odore di mosto ovunque. Dalle urla che provenivano dal carrozzone quella sera si capì che c’era del brodo, e a tutti si scaldò il cuore e l’immaginazione. 

Elena, la fustigatrice, il pomo della discordia fatto a persona e da cui proveniva il suo soprannome, il vero nome è Delfa, colei che seminava la zizzania ogni volta che si faceva il bucato. Un cespo di capelli cenere coperto di henné, ma occhi intensi e sguardi lunghi, aveva domato il cuore del magiaro. O almeno così credevamo tutti.

Anche Elena si era ammorbidita. Il domatore aveva ravvivato il rosso dell’henné dei suoi capelli e reso le rughe meno terrose. Si intrecciavano le dita di nascosto sotto il tavolo a pranzo se non erano da soli. Lui le faceva accarezzare le tigri. Le voci erano più rarefatte dopo il primo incontro, ma dal sorriso ebete che avevano spesso la mattina si intuiva il trascorso della notte. Era per comunità quel sorriso una specie di serratura senza chiave sulla porta della sessualità degli altri. Tutto in comune, quello nel segreto. 

Il domatore non era stato a filosofeggiare la cosa. Elena si era trasferita nella zona animali, lontano dalle comari e dalle ballerine, per evitare zuffe. Il cerchio si era come ricomposto e l’acqua del nostro lago, dopo la caduta del sasso del suo arrivo, si era rinserrata.

Le alchimie dei gruppo hanno dei tempi, ma quando ci sono obiettivi, ritmi e stagioni, alla fine sempre si miscelano in nuovi composti. Anche per noi del circo è così.

Una sera, ad Odessa, tornarono le urla. Le acque del mar Nero si scomposero e penso che anche i marinai sbarcati che ronzavano come mosconi attorno al campo le sentirono. Diverse però, non le voci del breve piacere del coito, ma straziate e incredule. Provenivano dalle gabbie.

C’era una nebbia verde e polverosa data dall’umidità. Corremmo. Entrammo seguendo la voce. Per primo il mimo. Lui stava lì, sdraiato. Il suo corpo sempre modellato e il viso semi incosciente  con il sorriso del piacere. L’ultimo. La tigre giovane e iraconda, non ancora completamente a freno, aveva tra le zanne il suo membro. Elena guaiva come un cane fuori dalla gabbia. Non capii se per il corpo o la parte. 

Pochi secondi, siamo gente del circo. Capimmo. Il domatore amava talmente gli animali. Ne era stato domato. Cavalcato questa volta nella furia del piacere da quella sbagliata. Elena guaiva dal dolore e dalla pena della gelosia. Lui era morto d’infarto. 

Tengo sempre la sua foto vicina. Mi ricorda negli amplessi, nei momenti di abbandono, chi deve tenere le redini. 

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