PERDERSI nel BIANCO - l'orlo dei colori - Francesco Caggio

Pubblicato sul catalogo di Selvatico, Cotignola (2006)

Il bambino muove lentamente le sue pupille, con circospezione, sospetto, timore e diffidenza; le tiene quasi ferme in una vibrazione tesa sull’orlo dei suoi piccoli occhi, 

lo ha detto anche l’oculista che sono piccoli. 

Chissà fino a dove possono vedere e fino a dove possono arrivare per cercare di vedere; certo è che ora deve stare molto attento perché sono piccoli i suoi occhi, forse può vedere solo una cosa per volta. 

Per questo lascia solo che le pupille si aggirino furtive e curiose, allertate e vigili sul confine della sua visione, non c’è altro…un quadrato sghembo che trattiene i suoi piccoli occhi contro, addosso e mai riposati sulla distesa ben riquadrata della garza. 


  • La garza è così gentile, tenera e delicata, gli fa tenerezza; non piange pensando che la garza è lì, più immobile e ferma di lui e che forse lo protegge e gli salva gli occhi e che glieli riposa con il suo bianco così lievemente mosso. E’ zigrinato, ricco di filamenti, filamentoso, erba muschiva di un lavoretto di Natale delle suore, quel bianco che tace al tessuto vibrato e sospeso dei suoi pensieri.  

    Sì, un bianco silenzioso, molto tenue e fermo, pare che sia possibile persino fare un giretto immemore lungo i suoi bordi non così ben tagliati, un po’ sminuzzati: c’è come un’effusione che li circonda, come una muffa o un muschio, sì un muschio bianco di Natale, che fa il velo più prossimo e rattenuto sulle  pupille del bambino, spalancate certo, eppure  così divaganti e assorte dalla profondità di quella unicità totale, di quella totalità pur discretamente ricamosa e impaludata.

    Dopo tanta attesa -che lievi sudori sull’orlo delle ciglia (sudori bianchi anch’essi?)-   di una visione che possa deporre la tensione degli occhi tesi e rapiti a scrutare una profondità che oscilla fra essere contro le pupille e poi lontana e inabissata oltre le lenti nascoste e dimentiche, il bambino osa con un dito tastare la superficie amorosa  e atterrita della garza che tace e tace ancora; scopre che è spessa, che è gonfia di bambagia e che ci sono tanti bianchi che si sostengono in uno spessore invalicabile; allora non resta che perdersi e mantenere fisso lo sguardo nella fuga danzata delle filigrane e divagare  scoprendo che dopo un po’, sarà per fatica?, c’è solo un grigio che depone verso un nero. 

    Inconsolabile assenza anche per quel giorno di un piccolo sollevamento di un angolo di un lembo al colore che si sottrae.

    E il bambino non fa che aspettare l’ora per spostare solo di un po’ la garza, saprà poi che resterà abbagliato dal subito del bianco accecante del primo colore che coglierà e chiederà, prima con la sua mano a conchiglia senza alcun colore, la protezione del bianco silenzioso e tenero della garza, un riparo senza guizzi e vita. 

    Asservito e perso nel suo spessore ingannevole. 

    E così egli costruisce i suoi silenzi e non avrà più parole.

    Gli resterà in dono l’incanto imprendibile dell’apparizione di ogni traccia di colore; apprendistato di un cieco allo splendore voluttuoso dei colori che non si possono parlare. 

    Si accarezzano solo, sapendo che sono oltre il bianco che può trattenerli per giorni e anni. 

     

    Il giovane ragazzo poi un giorno aprirà una finestra e sorpreso griderà: “Guardate qui, è bianco”, “Ma sei sicuro?”, “Venite a vedere”, “Ma non si vede niente”.

    La nebbia stava -si la nebbia sta e forse anche  il bianco sta- lì davanti agli occhi e se stava, occupava il mondo intero e lo copriva e lo oscurava e lo obliava nel suo biancore di folate spesse e incuranti dello sciogliersi del turbinio accolorato del mondo.

    Non c’era che un possibile cammino nella propria ombra sbiancata in  un altro bianco così assorbente da perdere la pelle ormai fatta pastosità di un orizzonte arruffato e disfatto  nei suoi confini. Accorgersi di avere un‘anima, un doppio fatto di  un soffio che perde la pelle e trascina i passi a tentoni perdendosi in smarrimenti indefiniti e in rimpianti già fatti vapore sull’orlo del cuore nell’avanzare inarrestabile del tempo…

    Nella sera quel bianco luminoso persiste senza requie come le apparizioni del catechismo e ogni volta il ragazzo si chiede dov’è finito il volume del suo corpo. Fantasia di avere avuto un corpo, di poterlo lasciare e come un  peplo perderlo tornando a casa, verso i  colori fastosi della casa luminosa e concreta,  per amori non ancora avuti ma, già consunti dalla nostalgia  sulle strade di paradisiaci purgatori di anime bianche che sussurrano nel biancore tramato di voci promesse di ritorni; epifania della musica sull’orlo del bianco che svuota. Bisogno di astratti colori e appoggiarsi alle note. 

    Declinare verso Orfeo ed Euridice con tutto il biancore lucoreo dell’essere richiamati prima di sparire nelle nebbie del non dichiarato amore.

    Scoprire che andare verso il nord è un viaggio dentro l’introverso, il pozzo tramato di muffe antiche di neve dell’anima fatta da cirri affolati di nebbia sbiancata…certo che faceva freddo in quella stanza subito dopo il Duomo, ogni vero Duomo è sol che bianco. Anche a Venezia  un albergo era  bagnato di nebbia a novembre di un bianco che fremeva sui muri di conchiglia. Era  denso il cammino dei passi senza rumore alcuno che foravano il bianco in una rapinosa fuga  senza perimetro della nebbia nella  laguna in attesa del gelo per  fermarsi attonita e raccolta nel fondo, proprio nel fondo, tanto sotto la lastra del panico ghiacciato  del mattino con  un’alba senza ore: le finestre erano icone, sacralità di un’accecante visione; pura apparizione. Invocazione al sacro dal bianco sporco per ventimila lire delle lenzuola; era l’abisso della laguna in una stanza pallida di muffa adriatica sbiancata. Chiamata ad un attacco di febbre con convulsioni per rimanere nel sudore bagnato, muco dei muri marini e lasciarsi andare alla cecità dei risvolti amorosi,senza ritorno alcuno; aspirare  il ghiaccio della finestra bagnata  dalla promessa di nevi che aspettano un arrivo definitivo là dove stanno eterne e silenti.            

    Gioire dentro, ma proprio dentro per la scomparsa quieta e rasserenante del concreto, di ciò che urta, spinge, intrude.., il bianco assorbente della nebbia  avvolge e perde, confonde e  consola perché si è soli… per questo si lavora la  macchia di inchiostro sul piano assorbente della carta che la mangia, è troppo sola, indifesa e senza appello, la macchia nella sua presenza disorientata .

    Il ragazzo solca la memoria dei suoi occhi lungo le  strade della solitudine e dell’eventuale non ritorno, è solo nel bianco della nebbia che trattiene il gelo della neve a venire, il torrente è proprio lì, scorre e sta oppresso, non accoglie nessuno, lo specchio è opaco. Per favore: “Venite a vedere, se vedete” che,  in questi lievitanti innumerevoli e scorrevoli piani del bianco che non lascia spazio alla presa,  ci sono io, vivo e non solo fantasia di un richiamo e  di un appello 

    “Venitemi a prendere, se riuscite a vedere”, vi aspetto, ma non mi muovo, la nebbia  mi assorbe in pensieri a cui devo dare colore pena il mio lento spegnermi con l’alba.

     

    Ora che l’uomo non ha più le bende e vede poco, sempre meno e fa mondani viaggi verso il nord 

    …solo perché l’abbaglio di una cascata di quel che fu e sarà un leggero torrente silente e agghiacciato, 

    …solo perché la distesa serena e senza scampo e potente nella sua interezza di un ghiacciaio, 

    fanno dei suoi piccoli occhi incantati, lenti, discreti,  analitici scrutatori della precisa nettezza delle distese di bianco che danno vita ai colori in un’epifania intollerabile alla sua timida visione. Pur si allarga la visione e lo scuote a vita, alla vita delle cose così concrete e vivide e  sorprendenti a cospetto del bianco; osare guardare il bianco è avere il coraggio di tornare ai colori. 

    E può senza alcun timore anche velarsi di un piangere discreto e nascosto: il pianto resta comunque bianco e fa tenda sfilacciata al turbinio rovinoso dei colori tutti.

    E’ così in tanti dipinti: c’è sempre un filo, un grumo di bianco nelle lacrime dei dipinti che l’uomo guarda, a partire dall’incidenza spiazzante di un solo, solo uno!, tocco di bianco.

    Tocco di bianco e splendore dell’esserci.  

     

    L’adulto ama ancora oggi tastare e guardare, rigirare sotto le mani e gli occhi le garze che gli tremano ancora un po’ fra le mani esitanti; sono sconosciute e inerti, tele per icone consunte fra le mani dell’attesa di una parola possibile per quello che il bianco 

    occulta e offre all’uomo ogni volta rapito e tradito dal suo richiamo assoluto. 

    Senza compassione alcuna.