inguineMAH!gazine


Mappe alternative per città senza memoria

Mappe alternative per città senza memoria, inguineMAH!2009 – anno7 (2009)

Se vogliamo combattere questo mondo, dobbiamo farlo combattendo la sua caratteristica preponderante, la transitorietà. È l’opinione di Kafka, ma anche di chi registra in qualsiasi modo un aspetto della realtà. E la transitorietà delle esperienze che hanno riempito alcuni luoghi delle nostre città è stato il tema di questa sezione di inguine.

Se in tutti i tentativi di presa della transitorietà, vige la menzogna, è il contenuto di verità della menzogna che ci interessa. La sua limitatezza non può frenare lo stimolo naturale della ricerca.

Questi luoghi essenzialmente transitori, occupati, questi spazi che hanno sedimentato più parole e suoni che carte e registrazioni, sono stati spesso rappresentati dalla retorica della menzogna. Oppure dalla sua compare più temibile, l’amnesia. Visto che non si sono mai posti l’obiettivo della memoria della propria esistenza, sempre tesi ad esistere e a pensare ad un orizzonte futuro, al fare immanente, gli spazi occupati non lasciano traccia. Finiscono esclusivamente nella memoria individuale di chi li ha praticati. Non è certo obiettivo di questo numero ovviare alla loro transitorietà, anche perché chi li ha animati e vissuti probabilmente non aveva nella loro sopravvivenza un obiettivo, ma in quello che dicevano e che offrivano in quel momento lì, per quel attimo che dura un millennio.

Ci sono poi altri luoghi che si sono nascosti nelle pieghe. Ogni città è fatta di molte mappe: quelle ufficiali, quelle dei luoghi nascosti, quelle dei posti che non ci sono più, quelle dei luoghi che sono appartenuti a molti e poi sono scomparsi, delle nostre geometrie quotidiane. Attenzione, non vogliamo avventurarci nelle definizioni non luoghiste amate da molta critica contemporanea. Anzi, è semmai vero il contrario. I luoghi di cui si racconta sono proprio quelli densi di esperienza antropologica.

È evidente anche la forte impronta soggettiva del ricordo. Questa ci fornisce quella patina malinconica che avvolge tutte le storie realizzate. Lo sguardo verso se stessi, quel sé che ancora non ha necessità di raccontarsi perché troppo intento a vivere, è sempre vicino all’umore di Saturno, la malinconia. Essa è la porta più vicina al desiderio oscuro, al rapporto interrotto con un oggetto che viene sottratto alla coscienza, come si esprimeva Freud. È quella malinconia che impera nel balbettio odierno di molta politica, che fatica a riappropriarsi dei luoghi e delle vite che li hanno resi possibili, di quelle parole e di quel ideare che hanno sancito anche il proprio accesso al pensare di gruppo. Molti si sono persi, alcuni si sono arresi, altri balbettano. Ovunque questo senso d’inopportuna malinconia, che un po’ di sente anche in queste storie che raccontano dei luoghi sottratti.

Forse la soluzione è negli ultimi versi della Dickinson, nella possibilità “che si alteri la tenebra”. Perché è proprio facile abituarsi al buio. Spesso sento, in questo sottrarre continuamente luoghi comuni alla collettività con la menzogna della restituzione alla comunità di tali spazi (un classico direi della propaganda sgombratoria), che piano piano diventerò cieca, assorbita dal buio della città senza luoghi di incontro.


Ci abituiamo al buio

Quando la luce è spenta;

Dopo che la vicina ha retto il lume

che è testimone del suo addio,

ù


per un momento ci muoviamo incerti


perché la notte ci rimane nuova,


ma poi la vista si adatta alla tenebra


e affrontiamo la strada a testa alta.





Così avviene con tenebre più vaste.


Quelle notti dell'anima


In cui nessuna luna ci fa segno,


Nessuna stella interiore si mostra.


Anche il più coraggioso prima brancola

un pò, talvolta urta contro un albero,


ci batte proprio la fronte;


ma imparando a vedere,




o si altera la tenebra


o in qualche modo si abitua la vista


alla notte profonda,


e la vita cammina quasi dritta».



E. DICKINSON, (trad. it. Tutte le Poesie,

Mondadori, Milano, 1997, p. 459).

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Editoriale inguineMAH!2009

Editoriale, inguineMAH!2009 (2009)

Sto nel cuore del secolo.

(O. MANDELSTAM)


Come se io dovessi attraversare dei millenni,

perché un paio di attimi mi rincorrono con il bastone.

(T. BERNHARD)


Che cosa cerchiamo nelle figure? Il flebile suono del riconoscimento, un ricongiungimento al disegno del nostro corpo, oppure lo specchio dell’altro e del suo corpo piegato sulla carta.

In questo primo decennio indefinito di un nuovo millennio e di un nuovo secolo, sembra che la logica stessa del riconoscimento si sia dissolta. Essa ha lasciato spazio all’autoreferenzialità, al chiacchiericcio indistinto, alla distrazione e al divertimento, che essenzialmente hanno lo stesso significato. Ci si intrattiene, non si dialoga. Si fanno riunioni, non si ascolta. Lo spazio antropologico della ricerca dell’umano si è ridotto in termini ormai preoccupanti, oppure è diventato anch’esso spazio “divertente” come la taranta in Puglia, epurato del contenuto, spesso di significato, di cultura delle classi subalterne.

L’antropologia ci manca: è un secolo di vita di Levi Strauss, e un amico mi dice – “Chi? Quello dei jeans?”. In effetti l’antropologo non ha un marchio depositato. Ma ha raggiunto un secolo di vita, osservando figure, tradizioni, riti, miti… Un lungo sguardo fanciullesco che per alcuni versi può considerarsi “sorpassato”, ma che continua ad interrogarci sul nostro guardare, vicino e lontano dall’ombelico.

Con questo numero corposo stringiamo gli occhi per acuire lo sguardo, per stare dentro il cuore del secolo ed ascoltare il suo battito. Guardando le figure, come alfabeto che viene prima, in attesa di nuovi antropologi che interpretino i segni di una comunità che si riconosce attraverso il disegno.


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“Fred Flintstone incontra Dante…” Intervista a Matti Hagelberg 

Pubblicato inguineMAH!gazine #11 – 2007

La scena del fumetto dei paesi nordici riserva molte sorprese per chi riesce ad accostarsi, magari utilizzando qualche traduzione francese o in altra lingua, a questo mondo piuttosto lontano dal nostro. Intendo lontano non tanto per motivi di distanza territoriale ovviamente, ma soprattutto per cultura visiva e per tradizione narrativa. Se facciamo una breve ricognizione sulle nostre conoscenze della cultura di Paesi come la Finlandia, la Svezia, la Norvegia, vediamo che non siamo in grado di recuperare più di 2 – 3 nomi tra scrittori, scrittori per il teatro, registi…Insomma, uno scarso raccolto.


La sorpresa invece è tangibile: non solo per la maturità e l’originalità di autori come Matti (tradotto in varie lingue, è insieme a Pentti Otsamo l’autore più tradotto di questo Paese), ma anche per il volume di fumetti consumati l’anno. 

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Il tempo è tempo

L'ultimo Gasp, inguineMAH!gazine #2 – anno1 (2003)

Considerata la nostra miopia quando si tratta di valutare la nostra civiltà,

i suoi errori, le sue probabilità di sopravvivenza, e l’opinione che di essa

avrà la posterità, non abbiamo certo il diritto di stupirci che dei romani

del III o IV secolo si siano accontentati fino alla fine di vaghe meditazioni…

invece di interpretare con maggior chiarezza i segnali della morte del loro

mondo. Non vi è nulla di più complesso della curva di una decadenza.

Marguerite Yourcenar, Con beneficio d’inventario, Milano 1985, p. 24


C’era il coniglio di Alice. C’era il proverbio il tempo è denaro. C’erano gli epigrammatici filosofi prima di Socrate: non ti bagnerai mai nello stesso fiume. Una serie di parole e cose che ci hanno ancorato al passare inesorabile del grande modellatore. Ma soprattutto c’era lui, il tempo. Il tempo per sé, per la noia, per il vuoto che riempie la mente, il tempo per sorseggiare il caffè al tavolo di un bar e ascoltare i mormorii dei vicini.

Per noi, cioè per questa rivista anemica e bizantina, sono passati cinque anni di tempo. Sono trascorsi? Sì, in effetti è così. Lo noti dal mutamento degli sguardi, dall’assenza di tempo negli amici che spesso corrono e rincorrono la loro vita e non c’è tempo, non c’è tempo.

Le riviste, come i figli, ti danno invece un orizzonte, delle coordinate che ti ricordano di quanto è passato tra le tue dita e i tuoi occhi, altrimenti rischi di perdere tutto. L’amnesia è una delle malattie più infettive del XXI secolo. Alcuni dei nostri superamici sono ancora qui, alzano la mano e dicono presente. Li troverete in queste pagine. Altri ci hanno lasciati. Possono permanere solo nelle sinapsi dei non amnestici. Quel terribile muscolo del ricordo sapete, che alcuni odiavano nei nonni.

Oltre all’appello del chi c’è, chi non c’è, mi guardo intorno e vedo effettivamente delle cose mutate, che cinque anni fa non so se avrei previsto.

Ci sono le graphic novel: sapete, quella cosa che esiste da almeno trent’anni per non dire cinquanta nel fumetto, ma che adesso esiste perché ha trovato un’etichetta che per allure inglesizzante che fa tanto sono stato nel centro dell’impero e ho visto cosa succede, è improvvisamente diventata evidenza anche in Italia. Ne scrive su questo numero un rissoso Battaglia: si può essere o meno d’accordo con lui, ma comunque quanto osserva non lascia indifferenti.

I Balcani ci sono ancora: almeno geograficamente, ma se un quinquennio fa ancora un trafiletto se lo conquistavano, adesso sono svaporati nel fumo delle sigarette Drina. Wostok continua a disegnare, a leggere in modo surreale il reale e noi speriamo sempre che l’attenzione a questi autori non sia un passeggero e coloniale accorgersi di chi è in prima pagina per numero di bombe, ma un interesse per la storia, per il disegno di quell’autore/autrice. Ah! Il Montenegro è diventato un altro Stato: mi ricordo una volta, proprio c’era una volta, gli anarchici che volevano abbattere lo Stato. Adesso tutti ne vogliono fare uno…si vede proprio che hanno perso.

Visto che siamo in un momento di millenarismo di ritorno, c’è anche lui, il vecchio Inferno dantesco, interpretato dal nordico Matti Hagelberg. Chissà come suona in suomi Inferno: e soprattutto, sarà anche per il Paese dei ghiacci un luogo di fuoco?

Noi nei gironi ci stiamo ancora, in quello dei senza vuoti nei testi, in quello “c’è ancora qualcosa da dire”, in quello “non vogliamo tacere”, in quello “la poetica non è l’assenza”, anche in quello “non farò mai la dieta”. Siamo anche nel girone dei cattivi che fanno gli allegati: difatti a questo numero volendo è abbinato il fascicolo con gli autori premiati e selezionati dal concorso di Bologna Iceberg: Eugenia Monti, vincitrice, poi Anna Defolorian, Angelo Mennillo, Emanuele Rosso segnalati. Il tema era il kairos, che spesso è tradotto occasione, momento opportuno per, ma è anche semplicemente tempo.  

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Un'intervista con Wostok

Intervista a Julie Doucet, inguineMAH!gazine n°1 – anno 1 (2003)

Wostok non è il nome di una vodka serba, ma lo pseudonimo di un disegnatore, poco conosciuto in Italia, ma ben noto nel suo Paese, e anche in altri paesi europei. Per gli appassionati: vi ricordate la copertina del primo Stripburek, con un uomo vestito in abiti tradizionali sulla luna? Bene, era proprio del nostro. Abbiamo pensato che fosse un peccato che la sua verve dissacratoria direttamente proveniente dal profondo underground balcanico non fosse nota anche in Italia. Così abbiamo deciso di pubblicare questa storia, non proprio nuovissima, ma che ci aveva divertito molto. Lo abbiamo anche incontrato alcuni anni fa al festival di Pancevo GRRR! Presentava in diretta al pubblico un suo cortometraggio, in cui comparivano Zagor e il suo aiutante che combattevano contro gli indiani sniffacolla. Tutto era ambientato nel cortile del suo giardino e gli attori erano vicini di casa, il padre e lo stesso regista: visto che il cortometraggio non era poi tanto corto ed era soprattutto in serbo, la visione era velocizzata e sottotitolata dal vivo dallo stesso Wostok…l’effetto era una sorta di b-movie in cui Franco e Ciccio in versione serba venivano tradotti in inglese da Ollio…è inutile dire che è stata una visione indimenticabile.


E: Wostok, chi sei? Vuoi presentarti…


W: Sono un curatore, editore di fanzine, disegnatore, regista di trsh film, lavoratore manuale, baby sitter, sognatore e fannullone della città di Vrsac nel nord della Serbia.


E: Raccontaci qualcosa del tuo lavoro: pubblichi direttamente i tuoi fumetti o pubblichi anche mediante editore? Cosa ci dici in generale sull’editoria in Yugoslavia.


W: Pubblico i miei lavori direttamente quando ce la faccio, altre volte con un editore. I miei lavori sono stati pubblicati su libri di lusso, riviste letterarie ma anche su numerose Xerox zines. Devo confessare che per me la piena libertà di espressione è molto più importante dell’aspetto esteriore delle pubblicazioni in cui compaio.


E: I tuoi lavori sono spesso sarcastici e in un certo senso i protagonisti sono eccessivi, le storie non sono realistiche, ma una distorsione della realtà. Sei d’accordo con questa interpretazione? Come può essere definito il tuo lavoro?


W: Sì, concordo con la tua interpretazione, soprattutto quando dici che le mie storie sono di fatto spesso “una distorsione della realtà”. I penso che quello che vediamo come realtà nella vita di tutti i giorni è così deformato e lontano dalla verità, che l’unico mezzo attraverso cui noi possiamo giungere più vicini alla verità è di distorcere e capovolgere al massimo la nostra visione, allora, quando tutto diventa assurdo, stupido e buffo forse possiamo vedere la vera verità nascosta dietro il muro dell’illusione quotidiana.


E: Hai scritto in una mail che uno dei tuoi libri preferiti è Kaputt, di Curzio Malaparte. Sono rimasta colpita da ciò, visto che questo libro non è poi così famoso neanche in Italia. La cultura italiana e la letteratura hanno un posto importante nella tua vita? In generale, mi sembra che nell’Ex Yugoslavia siete stati molto toccati dalla cultura italiana. È vero anche ora o è un fatto del passato?


W: Sì, ho trovato Kaputt uno dei libri più impressionanti tra quelli che ho letto in molti anni. Mi piace quella mistura di Malaparte di fatti, realtà, sogni, e strane visioni. Per me Kaputt dice molto di più sulla Seconda Guerra Mondiale di altri libri basati esclusivamente sui fatti. Sì, la cultura italiana ha avuto un grosso impatto sulle culture della Ex Jugoslavia. Saresti sorpresa nello scoprire quanto Alan Ford ha influito sui nostri fumetti, film, musica rock, teatro.. praticamente su tutti i campi della cultura!

E: E ora, dicci qualcosa su questa storia. Chi è il protagonista? Che tipo di personaggio rappresenta?


W: Questa storia è stata originariamente scritta da Nabor Devolac, uno scrittore, attore, musicista underground e artista sperimentale della mia cittadina. Il protagonista Stojan è un tipico personaggio originario delle montagne dei Balcani a prescindere dalla sua nazionalità. Rappresenta un uomo agli estremi totali! È assolutamente buono e assolutamente cattivo, con se stesso o la gente, infantile, bizzarro, divertente … e a volte pericoloso!


E: So che hai realizzato alcuni cortometraggi. Ci dici qualcosa di queste produzioni…


W: Dal 1997 al 2001 ho ripreso circa 40 cortometraggi “low fi”. Molti personaggi strani e lunatici del mio paese hanno preso parte a questi film sperimentali.


E: Vivi in un piccolo paese, come Zograf. È una scelta, un problema o solo un caso?


W: Una volta ho detto che “Sono nato, vivo e vivrò tutta la mia vita sicuramente a Vrsac!”. Una cittadina piccola, ma interessante in cui esiste il più grande ospedale psichiatrico del nostro Paese. È semplicemente impossibile vivere in questa città e non notare tutti gli strani personaggi che girano nel parco, alla fermata dell’autobus, o nel centro della città. Trovo questa ambientazione di grande ispirazione per un artista sperimentale come me.


E: …Ma, anche se vivi in questa piccola città, stai sempre producendo qualcosa e trovi sempre storie da raccontare. Ci puoi dire qualcosa dei tuoi progetti futuri?


W: Credo di essermi tirato indietro un po’ troppo fino ad adesso. Ora sto cercando di comunicare il mio lavoro molto più di prima.


E: Un’ultima domanda: se tu fossi un editore, con un pacco di soldi che vuoi spendere, che fumetti ti piacerebbe pubblicare in Serbia?


 W: Sai negli ultimi decenni ho tenuto un mucchio di workshop di fumetto con molti appassionati: partecipavano bambini, ragazzi, nonne, ecc.. Ho compreso che molti di questi outsiders hanno uno spirito molto più fresco e sperimentale dei fumettisti di professione! Mi piacerebbe pubblicare una selezione di questi “fumettisti naif!  

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Calvinismi: la taverna, il castello e il motel dei destini incrociati

inguineMAH!gazine #10 – anno4 (2006)

Alla fine della “Taverna”Macbeth dice:
Sono stanco che il sole resti in cielo,

non vedo l'ora che si sfasci la sintassi del Mondo,

che si mescolino le carte del gioco


Ad Urbino nel 1968 Italo Calvino assiste alla lezione di Paolo Fabbri dal titolo “Il racconto della cartomanzia e il linguaggio degli emblemi”. Lo scrittore inizia quindi ad elaborare il progetto di un libro che utilizzasse i Tarocchi come una macchina per produrre racconti: ogni carta ha una funzione narrativa potenziale, la loro sequenza può dar vita ad un racconto, l’incrocio di diversi racconti avrebbe dovuto produrre il libro. Calvino preferisce utilizzare i Tarocchi non del Rinascimento, ma quelli di Marsiglia (1761), un mazzo di più grezza e popolare fattura disegnato da un illustratore marsigliese chiamato Fautier. Il lavoro si rivela molto difficile. Lo scrittore parte dalla stesura del testo, ma non riesce a costruire con i racconti già preparati una struttura che lo convinca, non riuscirà cioè ad ottenere una disposizione convincente e si dovrà accontentare di uno schema lacunoso e precario. «...sentivo che il gioco aveva senso solo se impostato secondo certe ferree regole; ci voleva una necessità generale di costruzione che condizionasse l'incastro d'ogni storia nell'altra, se no tutto era gratuito». L’esito di questo primo tentativo è successivamente pubblicato nel 1973 e licenziato dall’autore come imperfetto: «Se mi decido a pubblicare “La taverna dei destini incrociati” è soprattutto per liberarmene. Ancora adesso, col libro in bozze, continuo a rimetterci le mani, a smontarlo, a riscriverlo. Solo quando il volume sarà stampato ne resterò fuori una volta per tutte, spero».

Tuttavia l’idea di una narrativa come processo combinatorio non fu mai abbandonata da Calvino e quando nel 1969 Franco Maria Ricci gli propone di raccontare con un testo i Tarocchi del mazzo visconteo realizzato tra il 1450 e il 1468, accetta, ma cambia metodologia di lavoro: prevede lo schema già quando incomincia a scrivere i primi testi. «Mi fu facile così costruire l'incrocio centrale dei racconti del mio "quadrato magico". Intorno, bastava lasciare che prendessero forma altre storie che s'incrociavano tra loro, e ottenni così una specie di cruciverba fatto di figure anziché di lettere, in cui per di più ogni sequenza si può leggere nei due sensi. Nel giro di una settimana il testo del Castello... era pronto per essere pubblicato». “Il castello dei destini incrociati” esce quindi nel volume d'arte “Tarocchi. Il mazzo visconteo di Bergamo e New York”. Il furore matematico di Calvino nella ricerca di chiusura delle forme, di geometrica stilizzazione, di binaria contrapposizione di giochi combinatori non viene mai ad esaurirsi e percorre tutta la sua produzione letteraria. La questione del gioco, l'adesione di Calvino all'Oulipo, i rapporti che la sua scrittura intrattiene con la figura e con il diagramma sono tutte parti di una più generale considerazione sulla dimensione progettuale dell'opera. Sappiamo che di tanto in tanto riprenderà in mano lo schema de “La Taverna”per aggiustarlo senza mai arrivare a risolvere il puzzle. « Non so da quanto tempo sto rinchiuso con gli occhi fissi sul tavolo ricoperto di rettangoli multicolori. Ormai non mi preoccupano più le giornate che passano, ciò che succede fuori, la parte che potrei avere io – chissà perché io - nelle cose che succedono; so che tutte le vie mi sono escluse tranne questa di contemplare le combinazioni di queste figure. Contemplare: cioè comprendere contenere ammettere tra le cose possibili o pensabili.[...] Nessuno è riuscito finora a capire quello che faccio. Dicono: "Allora hai scoperto il segreto per tirare le carte? Mi sai dire l'avvenire?”. [...] Se spiego che non pratico la cartomanzia né per me né per gli altri, non mi credono; a tutti, appena i loro occhi si posano su questa successione d'allegorie ambigue, di rebus allusivi, viene spontaneo il desiderio di stabilire un rapporto fra sé e il caso, tra sé e la perdita continua di sé nel tempo e nelle cose. A me questo desiderio non tocca, non è la frana degli sbriciolati detriti delle esistenze che io contemplo nell'ordine delle carte ma qualcosa di ben più importante: i modelli senza i quali il vissuto e il vivibile non potrebbero essere pensati».

Calvino confessa, nella nota conclusiva a “Il Castello”,un certo fastidio per la prolungata frequentazione del repertorio iconografico medieval-rinascimentale. Vorrebbe applicare lo stesso metodo ad un materiale visuale moderno. Pensa ai fumetti e immagina quindi un terzo testo, “Il Motel dei destini incrociati” che avrebbe dovuto seguire i precedenti. Ma lo scrittore si ferma solo alla formulazione dell’idea e lascia ad altri la scoperta della regola combinatoria, della contrainte narrativa, la ricostruzione del diagramma, il quadrato magico, il castello di carte.

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Primati nello spazio

Editoriale, inguineMAH!gazine #9 – anno4 (2006)

Incontrare è fondamentale, noi siamo interamente determinati

non da ciò che siamo, ma da ciò che incontriamo.

Alain Badiou


“Esistono gli alieni?”, mi chiede uno studente. “Non li ho mai incontrati”, esordisco. Come rispondere senza perdere il principio di verità? L’unica possibilità è evidenziare il proprio senso del limite e denunciare la propria ignoranza. “Non lo so, questa è la risposta”. “Ma lo possiamo ipotizzare?”. Certo, forse. Scruto intorno alla ricerca del coraggio di trovare le parole, i giusti termini per indicare che forse sono stati tra noi e non ce ne siamo accorti. I primati hanno vestito le tute aerospaziali e sono partiti a zonzo nell’universo per trovare forme di vita intelligenti. Giunti sul pianeta terra hanno trovato macerie di perdute civiltà che si sono alimentate di religioni creative, piene di storie, che si sono tramutate nel corso del tempo in una serie di divieti alimentari e sessuali. Stupiti, non si sono dati per vinti: continuando nelle peregrinazioni hanno incontrato vecchi dittatori che inneggiavano in catene alla propria autorità perduta, soldati grondanti di sudore che ascoltavano musica impazzita in un deserto che ribolliva di una schifosa sostanza nera, scatole che trasmettevano immagini in molte lingue, innegabilmente tutte uguali. Una noia mortale. Dov’è il coraggio e l’audacia di cui avevano saputo dai canti antichi giunti al loro pianeta? In essi si inneggiava ad una giovinezza che diveniva il momento dell’abbandono delle radici e diveniva il primo motore della partenza, del viaggio, del nuovo. Invece i nostri poveri primati spaziali hanno incontrato solo pargoli cresciuti in case asfissianti che li tenevano legati come catene trasparenti a sé. Facevano strane file in grandi luoghi di acquisto, pieni di sacchetti colmi di cose inutili e dai loro portafogli fuoriuscivano collane di carte di credito. Il viaggio dei primati è diventato veramente noioso quando hanno assistito in una camera di motel ubicata accanto ad una multisala ad un dibattito televisivo politico. Ci hanno provato, ma il senso di vacuità e la mancanza di felicità e di sogno che hanno intravisto li hanno fatti veramente deprimere.

Il sapore dei cornflakes all’olio di palma si è attaccato al loro palato secco dallo stupore. E sono partiti senza dare notizia di sé.

Questo non lo posso raccontare ai miei studenti. Non posso recidere sul nascere l’ipotesi, teoricamente plausibile, di un extraterrestre che con il suo sguardo ci faccia presumere di costituire una forma intelligente di vita nello spazio. “Forse ci sono, ma io non lo so”. È duro riconoscere la propria insipienza. La verità è che a volte ho incontrato storie che sembrano guardarci con gli occhi dei primati venuti dallo spazio. In questo numero ce ne sono diverse.  

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Calvinisms: the taverna, the castel and the motel of crossed destinies

Catalogo "Marjane Satrape ovvero dell'ironia dell'Iran"

inguineMAH!gazine #10 – year4 (2006)

To the end of the “Taverna” Macbeth says:

I’m tired to watch sun in the sky,

I wait for the collapse of the syntax of world,

when playing cards are stirred.


In 1968, Italo Calvino attends the conference of Paul Fabbri from the title “The tale of cartomanzia and the language of symbols”. Since that, the author begins to elaborate the plan of a novel that used tarot like a machine for telling stories: each tarot have a narrative function, each sequence can give life to a story, all of the stories crossing would have had to produce the novel. Calvino prefers to use Marseillaise tarot deck (1761), a cruder and popular deck designed by an illustrator called Fautier. At the first, the project reveals itself very difficult. He departs from the layout of the text, but he doesn't succeed in building, with the stories already prepared, a structure that convinces him, he won't succeed in getting a convincing disposition and he must be been satisfied with a precarious scheme. "... I felt that the game works only according to strict rules; It has been necessary an absolute rule of construction that conditioned the joint of each tale in the other, otherwise everything was free". The result of this first attempt is subsequently published in 1973 and dismissed by the author as imperfect: "If I persuade myself to publish "The Taverna of Cross Destinies" that is, above all, for freeing me of it. Still now, with the book in drafts, I continue to put again the hands on it, to get off it, to rewrite. When the book will finally be published, I’ll be free once for all, I hope. Nevertheless the idea of fiction as a combinatory process was never abandoned by Calvino and when, in 1969, Franco Maria Ricci proposes him to write on the tarots (the Visconti deck created between 1450 and 1468) he accepts, but it changes methodology: it already foresees the scheme when he begins to write the first tales. "It was easy to build the central intersection of the plot, “the magic cross”. All tales emerged from each others that were crossed among them, and I got so a kind of crossword made of figures rather than of letters, in which every sequence can be read in the two senses. In the turn of a week the plot of the Castle... it was ready to be published." "The Castle of the Cross Destinies" goes out therefore in art catalogue "Tarot. The Visconti Deck in Bergamo and New York”. Calvino’s research of perfect forms, geometric stylization, and binary opposition of combinatory fiction never exhausted and it pass through all his literary production. Moreover, the matter of games, Calvino’s involvement in Oulipo, connections of his writing with the symbol and with the diagram are all elements to comprehend his opera.

We know that he took back in hand the layout of “The taverna” to repair and modify it without never coming to resolve the puzzle. “I don't know how much time I am confined here, fixed eyes on the table covered of figures. I don't worry anymore the days that pass, what it happens out, the role that I could have ­-who knows why- in things that happen; I know that all the ways are excluded to me except this: to contemplate the combinations of these pictures. To contemplate: that is to understand to contain to admit among all the possible or thinkable things. Nobody has succeeded in understanding what I do till now. They say: "Then, have you discovered the secret of tarots? Can you read in my destiny?" [...] If I remark that I don't practise divination neither for me neither for the others, they don't believe me; as soon as their eyes are placed on series of ambiguous allegories, allusive rebus, it comes spontaneous the desire to establish a relationship between them and the destiny, between them and the continuous loss of themselves in time and life. It doesn't touch me.It is not the landslide of the crumbled fragments of existences that I contemplate in tarot, but something more important: all the marks without which the lived one and the vivibile could not be thought." In the conclusive note to "The Castle", Calvino confesses a certain bother for prolonged analysis of such medieval-renaissance iconografic repertoire. He would want to apply the same method to a modern visual material. He thinks about comics and he imagines therefore a third book, "The Motel of the cross destinies" that would have had to follow the precedents. But the writer stops himself to the formulation of the idea and he leaves to others the discovery of the combinatory rule, the narrative contrainte, the reconstruction of the diagram, the magic square, a forest of paths.

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Gli occhi di drago del fumetto

Pubblicato su, inguineMAH!gazine # – (2005) (Catalogo di Komikazen Festival del fumetto di realtà)

Bisognerebbe sempre partire dalle origini. La prima domanda allora sarebbe: Che cos’è la realtà? A cascata, si aprono tutte le finestre delle definizioni, ambigue, tassative, ripugnanti, pseudo - oggettive, mistiche che l’uomo nel tempo ha dato. A me piace pensare che la realtà sia un drago. E che cos’è un drago? Norman Douglas, un nomade libertino come l’ha definito Calasso, aveva risposto a questa domanda «Un animale che guarda o osserva». Egli era arrivato a questa conclusione analizzando la radice della parola greca drákōn che deriva da dérkomai, verbo che significa “guardare con vista acutissima”. Quindi la realtà sta nell’atto di guardare e chi guarda altri non è che un mostro ancestrale che, come negli antichi miti, risiede vicino ad una sorgente d’acqua.

Nel momento in cui diamo credito alla esistenza della realtà e alla sua possibile rappresentazione, ci affidiamo dunque allo sguardo di un essere pericoloso e che ha abitato molti dei nostri peggiori sogni. Di fatto la realtà alberga in molti dei nostri peggiori incubi, a volte li travalica e si insedia nelle nostre paure.


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Nella terra dei sogni

Pubblicato su, inguineMAH!gazine # – (2005) (Catalogo di Komikazen Festival del fumetto di realtà)

E com’è vero che io son folletto onesto e semplice, sincero e schietto, se pure ho colpe, non ho mai avuta lingua di serpente falsa e forcuta. Pago l’ammenda senza ritardo. O mi direte che son bugiardo…
(Puck, in Sogno di una notte di mezza estate, W. Shakespeare)


Viviamo in questa terra di mezzo, dove i sogni albergano e non hanno cittadinanza, ma solo permessi di soggiorno. Dobbiamo chiedere ammenda a qualcuno se ne rappresentiamo alcuni, se ci ricordiamo delle storie e di chi le ha vissute? Il nostro tempo spesso è impiegato nel chiedere scusa. Così perdiamo ore nel misurare le parole e nel rettificare i comunicati stampa, le nostre azioni…Dunque basta con questo scempio delle nostre giornate! Abbiamo organizzato anche noi un festival…Infatti, nella terra dei sogni c’è stato un cambiamento antropologico, e la continua plasmazione di immagini oniriche è stata recintata in riserve indiane per l’immaginario. Qualcuno le ha nominate festival.  Ce ne sono di tutti i tipi: del cinghiale, della mortadella pugliese e della trofia bolognese, del giallo e degli altri colori dell’arcobaleno, oppure più banalmente nominate con i nomi delle città che le ospitano. 

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La musa bracconiera di Davide Reviati

In inguineMAH!gazine n°6 – (2005)

Bontempelli ne La vita intensa ci svela uno dei segreti della consapevolezza del vivere il proprio tempo: «Mettetevi davan- ti allo specchio, guardatevi, e dite forte: “Pensare che ho dieci anni meno che tra dieci anni!”». Questa semplice ricetta permette di essere maggiormente presenti a se stessi nel momento in cui, ad esempio, si hanno vent’anni. Non ci si può più sbagliare, non può più succedere che ci si accorga di avere avuto vent’anni solo quando se ne hanno trenta.

L’ideologia del fumetto, di come il fumetto vada fatto e debba essere, è una malattia che affligge molti, soprattutto gli editori. Ma a volte colpisce anche gli autori, che nascondono, sotto i veli del fumettismo, mani, abilità, storie, idee, autocensurate e oscurate, appunto, dall’ideologia.

Per fortuna esiste il coraggio dei leoni: Reviati è riuscito a tirarlo fuori, alla sua venerabile età. Non è vecchio, non voglio essere frain- tesa. È solo un giovane uomo affetto da congenita senilità. 

 


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La Battaglia di Algeri - un concorso

Pubblicato su, inguineMAH!gazine # – (2005) (Catalogo di Komikazen Festival del fumetto di realtà)

Gillo Pontecorvo1 era sicuramente attratto dal neorealismo, ma ne applicò la poetica inventando una nuovo codice. Ne La battaglia di Algeri, girato nel 1966, egli effettua una selezione dei fatti esplicitamente finalizzata ad un obiettivo paradigmatico. L’intento era di superare l’orizzonte algerino e rendere questo film parte di un discorso più ampio sulla liberazione.

L’Algeria diventa indipendente nel 1962, dopo 8 anni di sanguinose lotte condotte dal Fronte di Liberazione Nazionale: la sinistra francese si divide e il dibattito sull’Algeria incendia le discussioni non solo dei salotti. In Italia invece la sinistra è chiaramente dalla parte del FLN, che gode peraltro del favore dell’ENI di Enrico Mattei.

La realizzazione del film ha una storia particolare, difficile da immaginare oggi: Yacef Saadi, comandante militare del FLN per la zona autonoma di Algeri durante la lotta, si presentò in Italia per cercare un regista interessato a girare un film sulla lotta di liberazione degli algerini. Aveva una rosa di tre nomi a cui rivolgersi (Visconti, Rosi e Pontecorvo): quest’ultimo accettò, a patto di potere riscrivere il soggetto propostogli da Saadi.

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Arance paleolitiche

 Editoriale per inguineMAH!gazine n° 7, Coniglio Editore

Con Vera le piace parlare della prigione. Una volta, mentre bevevano il tè, l’ha vista curvarsi in modo strano sulla tazza come a cercare qualcosa caduto dentro. Cosa cerchi, le ha chiesto Nadežda. Il mio viso, le ha risposto Vera. In prigione, le ha detto, non c’erano specchi, ci si poteva specchiare solo nell’acqua e soprattutto nel tè. (in Elisabetta Rasy, La scienza degli addii)


Lo so, probabilmente può sembrare pesante: e anche presuntuoso. Intendo, parlare raccontare rappresentare il carcere. Questo luogo altro e sconosciuto: talmente altro che Echaurren lo ha definito l’ultima comunità paleolitica o galeolitica, contemporaneamente. Eppure in qualche modo lui, da bravo astronauta del tempo, è deputato a parlare di questo pianeta sconosciuto, e anche a rappresentarlo, perché lo ha frequentato, quasi abitato, per tempi lunghi. Avendo come guida Valerio Fioravanti, Pablo ha girato i gironi di questo enorme purgatorio con occhiali meno strabici dei nostri. E quindi? Non voglio giustificare anzitempo questa operazione a rischio di vertigine e di strabismo: credo solo che si possa esplorare anche con la mente, se si usano occhiali onesti, e che questa esplorazione sia un po’ come il guardare di Vera nella tazza del tè, un cercare il proprio viso. Il carcere, come dice sempre Echaurren, non è che un anagramma della parola cercare.

 Quando si viaggia, qualsiasi sia il viaggio, quello che facciamo è cercare la nostra identità. Forse è stato questo lo sprone di questo album (dell’) immaginario: riaggiustare la nostra definizione partendo dalla clausura e dalla forzata detenzione di altri che ci sono stati tolti come appartenenza perché in carcere. Il raccolto è in questa vendemmia di storie a fumetti e di parole di altri visitatori: la particolarità di questo numero è che, senza volerlo, sono tutti italiani. La nostra esterofilia non si è placata, ma è stata un lapsus selettivo che ci ha portato all’italianità dei racconti (e sì, anche noi siamo facili bersagli delle malattie dell’italietta, basta distrarsi un attimo…). Mi sono giustificata abbastanza? Ho percorso in toto la via crucis del mea culpa mea culpa mea maxima culpa? Ecco, anche questi scherzi gioca la galera: ti porta a doverti sempre difendere. Quindi in un certo senso non ci siamo stati fisicamente, ma abbiamo assorbito le sue meraviglie psicologiche. Consiglio per l’uso di questo numero: tenetevi a portata di mano le arance.

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Intervista a Danijel Zezelj

Intervista a Danijel Zezelj, inguineMAH!gazine #6 – anno3 (2005) 

Caro Danijel, ultimamente in Italia ti vediamo perlopiù in occasione di performance e seminari. Qual è il tuo rapporto con l’italia in questo periodo? Sei in contatto con qualcuno per pubblicare?


In Italia, sto ancora collaborando con Grifo Edizioni. Hanno infatti pubblicato la mia nuova graphic novel Small Hands ed anche una seconda edizione de Il Ritmo del Cuore, esaurita per un periodo.

Per alcuni dei miei lavori recenti, ho provato a contattare diversi editori italiani, senza però ricevere alcuna risposta. Stampare un libro o una rivista, non è più una cosa difficile e costosa, così praticamente chiunque può farlo da solo. Il problema è come distribuire e come raggiungere il pubblico (probabilmente è una cosa che conosci dalla tua esperienza con Inguine). Se io fossi in grado di risolvere questo problema, mi stamperei i libri da solo.

Le performance multimediali sono state per me una strada per cambiare la tecnica di lavoro ed anche una metodologia per collegare arti visive alla musica (tutte le performance sono state realizzate in collaborazione con Jessica Lurie, compositrice e sassofonista). Oltretutto, le performance sono un metodo per raggiungere il pubblico direttamente, presentare le mie graphic novel ed anche la musica e i CD di Jessica. È un lavoro molto impegnativo, con un grande coinvolgimento fisico ed emotivo, ed ancora non sono sicuro se abbia un senso.


Qual è stata la tua esperienza italiana? Puoi essere onesto e cattivo!


Sono arrivato in Italia alla fine del 1991, dopo avere lasciato l’Ex Yugoslavia e passato sei mesi a Londra. Visto che mi avevano buttato fuori dall’Inghilterra (polizia dell’immigrazione), l’Italia era l’unico paese nel quale speravo di potere rimanere a lavorare. In questo senso, L’Italia ha salvato la mia vita. La gente di Montepulciano, che a malapena conoscevo, mi ha accettato e aiutato. Ho lasciato un pezzo del mio cuore in quel posto e devo molto a quelle persone.

Penso tra l’altro che l’Italia sia un posto speciale. C’è un commistione e uno scontro di molte diverse influenze, buone e cattive, ma c’ancora un forte senso comune, una gioia di vivere, che mira sempre al lato solare delle cose. C’è una lotta continua tra differenti forze, idée, tendenze (politiche, culturali, sociali…), ma fintanto che c’è lotta c’è speranza. Capissco che è una visione molto soggettiva, ma è il modo in cui io la vedo, probabilmente anche perché sono outsider.


Ora, vivi nell’impero “del male”…cosa significa essere un disegnatore europeo, croato, ex yugoslavo negli USA?


Significa essere un immigrato, ovvero non sentirsi mai a casa, non sentirsi mai a proprio agio, rilassato e tranquillo. Significa che non puoi mai divenire una parte di un gruppo, ma sei sempre un outsider e devi continuare a vivere, pensare ed agire come un individuo ai margini. Ma questo sforzo continuo ti mantiene vivo e vigile, ed è un elemento che considero positivo. Perché da solo puoi essere buono, mentre in gruppo puoi divenire un animale. Dunque, la mia posizione in questo “impero del male” è la medesima che avrei in altri luoghi – vivere giorno per giorno, cercando di sopravvivere.


Hai ripetuto due volte che ti consideri un outsider. Cosa significa per te questo termine esattamente, non avere padroni, non avere maestri, oppure…? C’è qualcuno con il quale ti senti di avere una “parentela” in questo senso? In fondo gli USA sono il paese degli immigrati per natura…Non credo che sia semplicemente perché tu provieni da un altro paese a farti sentire così.


Con il termine outsider intendo qualcuno “che non appartiene”. Significa questo – cercare di rimanere fuori da relazioni che sottintendano un capo e un seguace, un ordinatore e un ordinato, uno che sta sopra e uno sotto. È difficile ricavarsi uno spazio simile, perché tutto il sistema si basa sul principio della competizione, sull’essere o uno che controlla o uno che è controllato. Questo è quello che ti insegnano in famiglia, a scuola, all’ufficio, in TV…Sto cercando di evitare questo sistema il più possibile (spesso è impossibile) – e questo automaticamente mi pone nella posizione di outsider. Credo nell’esistenza non basata sulla dominazione e il controllo. L’unico spazio in cui questa esistenza è possibile è lo spazio della relazione personale basata sull’amore e il rispetto, e lo spazio della creatività. Questi sono la mia patria, i miei territori di libertà.

Puoi dire che gli USA sono stati fondati dagli immigrati e sull’idea del mondo libero indipendente. Ma visto che i valori materiali hanno sorpassato ogni altro valore, l’idea di libertà si è trasformata nell’idea di proprietà. Così eccoci qui.


Qual è la tua identità? È una domanda che per te ha un senso?


Parzialmente ho già risposto a questa domanda in precedenza. L’identità non può essere definita da nulla, ma solo dal tuo cuore, dalla tua testa e dal tuo corpo. Può sembrare astratto, ma vivo questa situazione molto concretamente, in modo pratico tutti i giorni, non sempre come scelta, ma sempre come una necessità.


Mi chiedo se ci sia una relazione tra questa tua strenua difesa dell’identità personale, individuale, e il fatto di provenire da uno stato che non esiste più e che ha vissuto uno scontro feroce proprio sull’identità comunitaria.


Probabilmente. Visto che non esiste nessun luogo fisico che io posso chiamare “la mia patria”. Sono quasi ossessionato dall’idea di difendere e preservare lo stato indipendente di me stesso. Cosa che a volta sembra ridicola persino a me. Ma penso che il concetto di “identità comunitaria” sia un mito pericoloso.


Parliamo ora più nello specifico del tuo lavoro. Mi riassumeresti, dal tuo punto di vista, il tuo stile con tre aggettivi?


Forse ne userei solo due, bianco e nero. Inoltre, penso che lo stile sia un elemento superficiale e irrilevante. Lo stile è solo un strumento di comunicazione, una tecnica, esso dovrebbe sottostare all’idea o all’emozione che si vuole esprimere.


Il tuo segno sembra molto xilografico. Hai mai realizzato xilografie o incisioni? Se tu non disegnassi, che cosa vorresti fare?


Ne feci alcune durante gli studi all’Accademia di Belle Arti a Zagabria. Tra l’altro, ho studiato pittura e il mio approccio e la mia visione provengono da un esercizio sulla pittura classica, tradizionale. Soprattutto dallo studio della pittura barocca e del chiaro/scuro. Un’altra influenza importante sono stati i film muti in b/n – dell’avanguardia russa e dell’espressionismo tedesco. La qualità visiva di questi lavori è rimasta insuperabile.


Ora vivi tra gli States e Zagabria, dove hai fondato Petikat. Ci racconti qualcosa di questo progetto?


Petikat è uno studio grafico e una casa editrice che è stata fondata da me e da due miei amici, Stanislav Habjan e Boris Greiner. Abbiamo cercato di operare come un laboratorio autosufficiente dove ogni parte del processo, dal creativo all’editoriale, fosse sotto il nostro controllo.

Boris e Stanislav sono anche scrittori, e il nostro obiettivo primario è di pubblicare il nostro lavoro (eventualmente anche quello di altri artisti e scrittori). Curando anche la parte grafica, cerchiamo di coprire i costi di produzione dell’editoria e di non dipendere dalle vendite. Cosa che sarebbe ridicola peraltro, in un paese con solo 4 milioni di abitanti che leggono e parlano croato.


Cosa succede ora in Croazia? Intendo ovviamente nel mondo del disegno, ma anche nella vita di tutti i giorni.


La Croazia, in particolare Zagabria, ha una forte tradizione nel disegno e nell’animazione. La Zagreb Film è stato uno degli studios più rispettati e creativi nel mondo durante gli anni ’60 e ’70. In qualche modo, esperienze importanti nel fumetto sono emerse anche durante gli anni ’80, nel periodo di Frigidaire in Italia, di Metal Hurlant in Francia. Anche adesso sembra che un mucchio di disegnatori di talento croati lavorino per DC Comics e Marvel. Il lavoro è buono, ma non trovo niente di interessante o stimolante, in quanto è un tipo di fumetti che non leggo o seguo. Al momento non c’è nessuna rivista o pubblicazione in Croazia che presenti fumetti in forma artistica con ampia possibilità di espressione e comunicazione – o fumetti che siano espressione della scena culturale, politica o sociale (nel modo in cui viene fatto da Stripburger, o Strapazine, Inguine, WW3…ed altre pubblicazioni simili).



Tutti abbiamo progetti nel cassetto, cioè idee e progetti in attesa di essere realizzati, possibili o futuribili. Quali sono i tuoi?

In questi giorni sto cercando di finire un’altra graphic novel, il cui titolo provvisorio è Stray Dogs. Questa storia ha molto a che vedere con il concetto “di non appartenenza” – come condizione, necessità, imposizione, scelta. Sto lavorando a questo progetto da tempo e il Gardner Museum di Boston ne valuterà la pubblicazione. Vedremo se andrà in porto. Sarebbe un interessante connessione tra la graphic novel e un’istituzione museale molto seria e tradizionale.

Un altro progetto è una sceneggiatura sulla quale lavorerò insieme al regista e cameraman Mario Amura.


Qualcuno sostiene che tu e Zograf siate come Bregovic e Kusturica. Uno è andato all’estero, l’altro è restato. Che cosa ne pensi?


Questo è un confronto veramente triste. Prima di tutto, ho poco rispetto del lavoro di Kusturica e non ne nutro nessuno per quello di Bregovic. Invece rispetto molto Zograf e il suo lavoro. In secondo luogo, io e Zograf abbiamo esperienze e background molto differenti in relazione alla vita e alla guerra in Ex-Yugoslavia. Confrontarci solo perché proveniamo dalla stesso stato scomparso è superficiale. Rifiuto qualsiasi classificazione per deduzione e generalizzazione, usata spesso dai media, dai politici, ecc. ….che niente hanno a che vedere con la vita vera. Le ragioni per cui Zograf è rimasto in un luogo e il mio andare via sono personali e soggettive e spiegate al meglio dal nostro lavoro. E questo è quello che conta. 

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Non sparate sul disegnatore

Non sparate sul disegnatore, inguine MAH!FIA – edizione speciale (2005)

Brahim Guerbi, detto Gegé, fu trovato con le mani legate con il filo di ferro e la gola tagliata vicino a casa. Dorbane fu ucciso con un’autobomba. Said Mekbel con una pallottola in testa in un bar del centro. Non erano corrieri della droga, piccoli esattori del racket o malavitosi in genere: facevano i disegnatori in Algeria. Come dice il mio amico Tahar Lamri, che ci ha raccontato queste storie, il fumetto è una cosa seria …Ce lo ha ripetuto come una specie di mantra durante il festival Komikazen di cui lui ha curato una sezione. Non immaginavamo certo quanto le sue parole sarebbero state confermate dagli avvenimenti degli ultimi tempi.

Nel nostro tempo le immagini sono tutto: questa frase suona terribilmente da luogo comune. Ogni scolaretto lo sa. Eppure chi avrebbe osato immaginare che forse la Terza Guerra Mondiale sarebbe stata scatenata da alcune vignette di un disegnatore scarso in Danimarca? Certo, c’è stata molta cattiva coscienza nell’uso che i poliziotti del mondo ne hanno fatto, ma è vero che durante i terribili anni ’90 che hanno sconvolto l’Algeria, i disegnatori sono stati tra le prime vittime del terrorismo. E che anche adesso i prolifici disegnatori turchi sono continuamente bersaglio delle denunce di Stato. E la censura, diretta o organizzata dalla distribuzione, opera anche nei nostri Paesi.

Quando abbiamo deciso di realizzare questo numero di Inguine dedicato alla mafia & co. nazionali, avevamo qualche dubbio sull’utilità e il senso di tale operazione. Si è portati di questi tempi ad essere travolti dal senso di impotenza, di inutilità che ogni azione, nel borbottio informe del mondo civile e politico che viviamo, si porta dietro. Forse questa è la condizione più terribile che condividiamo: l’essere solo un soggetto indefinito e passivo di immagini. Ogni decisione di prendere la parola è sempre mitigata e frenata dal senso di inadeguatezza. C’è un’omertà indotta, più strisciante e pericolosa di quella che vive chi si trova a diretto contatto con la malavita organizzata, e quindi di fatto ha almeno l’alibi del pericolo. Quella di chi non vive direttamente il rischio, ma si ritira nel suo silenzio indolente, rimpinzato dalle news delle veline dell’ansa e non reagisce allo stillicidio quotidiano di vite spezzate su strade non dissimili da quelle che percorre tutti i giorni per andare in ufficio. Basterebbero i numeri dei morti per comparare alcune zone d’Italia alla Striscia di Gaza. Ma così non è: non si nomina la strage civile che si compie. La retorica invasiva che corona ogni morte che esce dall’anonimato del giovane legato ai clan, rende ogni evento luttuoso uguale all’altro.

Dopo le uccisioni di Falcone e Borsellino c’era stata una stagione fiorente di pensiero e di emersione dello spirito non solo in Sicilia. Per alcuni anni, la stampa, le scuole, i sindacati, le forze dell’ordine, i politici stessi, le associazioni, i singoli cittadini, si sono sentiti uniti da un comune denominatore. Era rinata la consapevolezza che anche una parola, un gesto potevano presumere di cambiare le cose. Soprattutto si era rotto il recinto dell’omertà e del disinteresse connivente. Poi, come purtroppo spesso è successo nella storia del meridione, è di nuovo calato il sipario, è sopraggiunto l’isolamento mediatico e politico, ed è tornato il silenzio. Non ci sono state più immagini a raccontare, né scrittori per narrare. C’erano certo singoli coraggiosi capitani Achab, ma come ogni scolaretto sa, la balena alla fine ha la meglio.

Improvvisamente (all’apparenza all’improvviso), accade qualcosa che di nuovo attira giornalisti, fotografi, narratori: perché non bastano le statistiche per fare le storie, ci vuole il protagonista. E purtroppo il protagonista è un amministratore regionale. Come è potuto succedere, così senza preavviso, si chiedono increduli gli spettatori dello spettacolo dell’informazione…Adesso ammazzateci tutti, apre un corteo in lutto, ma allo stesso tempo attore, che esce dal gorgo del silenzio – passività – spettacolo.

Non è sempre facile uscire dal gioco del luogo comune. La nostra mente ragiona per metafore, similitudini, associazioni casuali, e si abitua a reperire secondi termini di paragone da un mucchio di immagini cianfrusaglia che giornalmente ci spiattellano. Questa consapevolezza del limite non deve toglierci l’obbligo e il piacere di prendere la parola e di creare immagini. Così abbiamo deciso di chiedere e racimolare queste polveri di immagini e storie. Ma per favore, non sparate sul disegnatore. 

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Un fantasma che si aggira per l'Europa

L'ultimo Gasp, inguineMAH!gazine #2 – anno1 (2003)

È nel momento in cui le realtà svaniscono

che si esercita appieno il talento dell’uomo di accontentarsi

di belle parole. Scomparsa Roma, il suo fantasma ha avuto vita dura.

Marguerite Yourcenar, Con beneficio d’inventario.


Interpretare la discesa della curva di una decadenza è quanto di più difficile possa tentare di fare una civiltà rispetto alla sua contemporaneità: questa era la valutazione che Marguerite Yourcenar dava della mediocrità interpretativa della storia della fine dell’impero romano contenuta nell’Historia Augusta. Tale mediocrità non ha però impedito a queste figure, descritte spesso come macchiette dai contorni grotteschi e splatter, di insinuarsi nella nostra percezione: esse hanno avuto la forza di similitudini distorte, ma quasi naturali, per descrivere il presente storico fino alla Seconda Guerra Mondiale. I vizi di Eliogabalo, l’assassinio di Caracalla, la testa di Massimino Trace piantata su un palo sotto le mura di Aquileia, sono stati punto di comparazione e riferimento quasi obbligato per letterati, storici e osservatori del presente fino a quel momento.

La Seconda Guerra Mondiale ha offerto nuovo materiale e ha quasi scompaginato questo repertorio di personaggi truci, tramandatici da un gruppo di storici di variabile qualità, lasciando il posto a nuovi termini di paragone: Hitler e Mussolini, e parzialmente Stalin. Di questi, Mussolini è purtroppo un prodotto nostrano. Non possiamo esimerci dal confrontarci con lui, che inventò il fascismo e ne tramandò il nome a tutto il mondo per descrivere con imprecisa approssimazione un regime italiano totalitario fatto di trebbiatrici, piccoli imperi, repressione, e che ha anche avuto come obiettivo la costruzione ex novo di un immaginario rivoluzionario: rivoluzionario nel senso letterale del termine, che voleva quindi rifondare, partendo da un travisamento della storia antica e dell’impero romano, un nuovo modo di rappresentazione del sé e del reale.

In particolare a partire dalla fine degli anni ’80, complice la caduta del muro, si è assistito ad una diversa declinazione dei termini fascista e nazista. Da una parte una corrente revisionista opera per un salvataggio del “buono” realizzato (e non parliamo solo dei treni in orario…), dall’altra l’utilizzo di queste due immagini così agglutinanti del male è stato un pericoloso grimaldello per aprire la strada alla creazione di nuovi nemici, alla definizione di nuovi confini: sintomo che quella storia non è finita.

Il tema portante di questo numero non vuole avere ovviamente intenti apologetici. Nessun peana, nessun encomio al duce. Chi volesse comprare la rivista con questa aspettativa, risparmi gli euri. Certo non si troverà neanche della satira caricaturale. Italiani brava gente, oppure la caricatura distorta e penosa del Benito nazionale, oppure ancora ma noi non siamo stati così cattivi. Piccole storie, brandelli di belle parole, un fantasma che si aggira pericolosamente per l’Europa. Non quel fantasma…

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Qui non c'era nessuno. Kufia - appunti per un immaginario dell'altro

L'ultimo Gasp, inguineMAH!gazine #2 – anno1 (2003)

Non esiste una cosa come il popolo palestinese… Non è come se noi fossimo

venuti e li avessimo cacciati e preso il loro paese. Essi non esistono.

Golda Meir (Primo ministro israeliano 1969-74),

dichiarazione al The Sunday Times, 15 giugno 1969.


Come possiamo restituire i territori occupati? Non c’è nessuno a cui restituirli.

Golda Meir, 8 marzo 1969


Kufia è nato nel 1988 come progetto a sostegno di un progetto di solidarietà. Erano tempi diversi per la questione palestinese. Si parlava un’altra lingua: nel senso che, ciò che è avvenuto dopo, ha cambiato la sintassi del discorso politico tout court e delle dinamiche in atto. La richiesta era abbastanza banale, ma complessa e rischiosa anche al tempo: si chiese ad una serie di disegnatori importanti di realizzare una illustrazione per farne una mostra e un port-folio che servisse come strumento di raccolta fondi per la Palestina. Ci furono dinieghi ed entusiastiche adesioni, come sempre avviene in queste circostanze. La peculiarità di kufia non fu però soltanto quella di radunare un numero cospicuo di autori italiani ed esteri su un progetto che per sconfiggere il silenzio usava le figure, ma quello di sopravvivere e continuare con tenacia questo lavoro. Questa è stata senza dubbio la riprova inconfutabile che se si vuole lavorare perché il silenzio esaurisca se stesso, lo si deve fare con costanza, anche se sottovoce.

Kufia presentò i lavori raccolti in oltre 70 città italiane e anche a Gerusalemme e nei Territori. Le tavole originali della prima edizione furono trafugate: non si è mai saputo chi fosse il mandante del gesto, ma la cosa non stupisce. Il furto avvenne con modalità organizzate e non improvvisate.

Nel 2002 gli organizzatori hanno deciso di ricominciare: di nuovo hanno contattato autori, alcuni già presenti nella prima raccolta, altri nuovi, anche perché qualcuno con Pazienza è venuto a mancare. Credo che la necessità di rinnovare la raccolta non sia stata solo dovuta allo scoppio della Seconda Intifada, ma anche al fatto che il conflitto e la sua rappresentazione sono cambiate. Ovvero, da un certo punto di vista la situazione rimane incrollabilmente identica, ma solo ad uno sguardo indifferenziato. Per prima è mutata la società palestinese. È mutato il clima politico interno di Israele. Siamo mutati noi.

Quest’ultimo cambiamento mi sembra quello più cruciale: il nostro mutamento. Perché kufia, a prescindere dallo scopo per cui è stata realizzata, è comunque una mostra di illustrazioni e disegni che risulta eccezionale perché rappresenta il nostro punto di vista, il nostro sguardo sull’altro. È vero che ci sono anche alcuni disegnatori israeliani e palestinesi, ma il gruppo più significativo, sia come numero che come rilevanza artistica, è quello europeo. Kufia è una piazza di visioni che colleziona rappresentazioni su un conflitto che ha una particolare rilevanza simbolica, ed in questo senso stimola la produzione di figure. Se lo sguardo muta, deve mutare anche la rappresentazione.

Il primo cambiamento è avvenuto nello strumento comunicativo di cui kufia si è dotato. Difatti ora è anche in rete, grazie alla collaborazione di inguine.net, e, si sa, il medium è significato. Il Blogger di kufia in poco tempo è stato visitato da migliaia di visitatori e sono state inserite quasi 50 immagini. Una ulteriore riprova che il simbolico che si accumula dietro a questa storia può trovare un valido strumento nell’immediata e non mediata pubblicazione della rete.

Il secondo cambiamento, meno evidente, ma più significativo, è quello dell’immaginario che pervade la seconda raccolta di illustrazioni. Se nella prima edizione le immagini erano, a prescindere dalla tecnica utilizzata, molto venate da un simbolismo orientalista, nel senso che a questa parola dà Said, ovvero di “orientale così come io occidentale me lo raffiguro”, e se mancava un approccio ironico o disincantato, ma prevaleva un’estetica che mirava alla commozione e alla angoscia, nella seconda edizione i toni sono in parte mutati.

Innanzitutto compare una vena ironica, di smontaggio di alcuni luoghi comuni, di decomposizione del senso invalso: ad esempio nell’illustrazione di Zarate del francobollo della Palestina (vuoto) o in quella di Giacon del ragazzino che legge Spiderman, mentre dietro di lui avanza un carro armato (la didascalia recita: supereroi con superproblemi). Segno che qualcosa è cambiato. Se il ragazzino palestinese non è più un ostaggio visivo, nel senso che non è semplicemente un topos dell’immaginario utilizzato a favore e contro tutte le guerre, ma diventa “persona”, personaggio di un racconto dove fa cose comuni come leggere un fumetto, allora qualcosa si è mosso nel nostro modo di rappresentare l’altro. Il disegno di Giacon mi ha ricordato un’altra illustrazione dove questo aspetto compare, pubblicata su World War 3 negli Stati Uniti, dove però il ragazzino gioca alla Play Station. In tutti e due i casi ho pensato alla richiesta che i palestinesi comuni più spesso fanno negli incontri: guardateci, non siamo tutti terroristi. Anche noi piangiamo i nostri figli. Guardateci, vorremmo una vita con le accidentalità del normale scorrere del tempo.

Kufia è un inconsapevole testimone, e forse promotore, di questo mutamento: in questo senso questo progetto non solo è stato prezioso per raccogliere fondi, diffondere idee e stimolare una riflessione su quanto sta accadendo in Israele e Palestina, ma è preziosissimo perché ha stimolato e permesso al nostro punto di vista di cambiare la propria interpretazione. Rappresentare se stessi è dura, farlo con l’altro lo è ancora di più. Alla fine, come diceva Borges, “un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Per anni e anni popola lo spazio con immagini di province, di regni, di montagne…E poco prima di morire, scopre che questo paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”. In questo senso dentro kufia ci specchiamo noi stessi. 

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La pazienza delle parole

Editoriale, inguineMAH!gazine #4 – anno2 (2004) 

Incredibile quanta pazienza ci vuole per vedereanche le cose più semplici.

Quanta pazienza ci vuole ora, per me, per scrivere un verso.

Ghiorgos Seferis


Che cosa significa avere un punto di vista? Posizionarsi e guardare con un binocolo sfocato oppure mirare al cuore? La visionarietà si scontra con l’assenza di visione, con la parcellizzazione implosiva di miriadi di immagini del partito unico della visione. Abbandoniamo la ricerca delle radici per un numero per intersecare quali sono i binocoli usati per le visioni a fumetti di autori diversi, per geografia, immaginario, riferimenti. L’implosione esiste, non c’è dubbio: proviamo a fermarla un momento e vedere che cosa l’alimenta. La soggettività del punto di vista seduce, senza dubbio, ci conforta e allo stesso tempo è spaesante.


La domanda, esiste il punto di vista, rimbalzava impazzita negli anni ’80 e ’90. Lyotard aveva insegnato che dalla dissoluzione della trasmissibilità (la “narratività” per la precisione) siamo passati ad una situazione in cui ha spazio solo la comunicazione diffusa dai media. Talmente è stata fritta e rifritta la questione del vedere, che abbiamo avuto bisogno di qualche anno di sana dieta da post-moderno e da teorie del visivo. Un ipnotico torpore ha pervaso le retine di molti, che si sono assuefatti alla comunicazione. Veloce, istantanea, amnestica. Oppure catatonica: visioni che conciliano lo slogan e non la poesia.

Lo sguardo è pericoloso: Orfeo perde la sua Euridice per uno sguardo in più all’indietro, pur avendola appena recuperata dagli inferi. Non si scherza con l’atto di guardare: il rito ce lo impone, eppure nuotiamo in una società che fa del voyeurismo la prassi nella nostra scansione del tempo. Un voyeurismo attonito e ammutolente.

In questo numero il voyeurismo, che quando non crea paralisi nella favella non è una brutta malattia, ha ancora ceduto alla tentazione della parola.

La necessità di coniugare più fortemente fumetto, illustrazione, Web Design e parola era una impellenza inconscia, che si è resa consapevole con la lettura di un articolo di Faeti nell’ultimo numero di Hamelin in un articolo non sintetizzabile perché ha un suo taglio narrativo che inequivocabilmente è legato a quanto sostiene, ma dove in particolare dice che “Il saper vedere si dimostra solo con le parole, perché ogni opera di interpretazione si compie unicamente quando le parole si stringono alle immagini che solo allora esistono, in quanto solo allora sono viste. Il mutismo percettivo vive di sé, non ha collegamenti, non procede verso mete, non conquista”.

Sin dal primo numero abbiamo scelto di accompagnare immagini e parole. Questa risulta una scelta a volte difficile da continuare, perché la riflessione e la ricerca sul visivo non è così scontata come può apparire a prima vista. Eppure, con tutti i rischi connessi, vogliamo costringere le parole a ballare con le immagini, anche se sappiamo che lo sguardo è rischioso e produce metafore. In questo numero le metafore, le similitudini, le diverse intonazioni della medesima figura a volte potrebbero averci preso la mano. Conquistare la meta non è semplice, perché il discorso non è meno pericoloso dello sguardo. Anzi: se il mutismo sulla figura crea inanità, la parola può incantare e irretire. Il rischio di avvolgerci in lettere e sintassi esiste, ne siamo consapevoli. Ma meglio morire parlando, che perire guardando.

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Editoriale di inguineMAH!gazine#3

(Editoriale), inguineMAH!gazine#3 – anno2 (2004)

L’uomo è un vertebrato e ha un’anima immortale, nonché una patria, perché non diventi troppo spavaldo…Ogni uomo ha un fegato, una milza, dei polmoni e una bandiera; tutti e quattro questi organi sono di importanza vitale. Pare esistano uomini senza fegato, senza milza e un solo polmone; non esistono uomini senza bandiera…Per il resto l’uomo è un animale che bussa alla porta, fa cattiva musica, e lascia abbaiare il cane. Qualche volta se ne sta anche tranquillo, ma allora è morto.

Oltre agli uomini ci sono anche i sassoni e gli americani, ma non li abbiamo ancora fatti e zoologia la studieremo l’anno prossimo.

K. Tucholsky, da L’uomo, citato in Ballata di fine millennio, Cantoni – Ovadia.


America, america. Ha il nome di un italiano. Le sue bandiere vengono bruciate in tutte le piazze del mondo da giovani vestiti in jeans e sneakers. È troppo facile parlarne male, per poi ritrattare sulla via di Damasco. Eppure non si resiste alla tentazione. Se vuoi fare carriera, ne devi parlare male. Se vuoi visitare l’ombelico del mondo, ci devi andare. Se vuoi incidere, ci devi vivere. La sua cultura omologatrice e malata di analfabetismo di ritorno ci offre sempre il modello. La periferia crea, innova, ma il centro tracima e rigurgita il nuovo in vesti più sfavillanti e con caratteri più chiari e leggibili. Il centro del potere continua ad avere un fascino allucinatore: è un polo di attrazione immaginifica molto efficace e, non a caso, gli USA hanno interpretato come nessun altro impero, se non forse Roma nell’età di Augusto, l’importanza del controllo delle immagini. Direi non tanto il controllo: non sempre l’immaginificio è sotto il controllo del potere. Questa è una semplificazione inutile. Quello che importa è che il centro di produzione rimanga nel centro. Anche la dissidenza, la diversità, l’alterità viene digerita: basta solo che non si espanda in maniera pericolosa e che rimanga in nicchie di mercato e di distribuzione ben definite.


L’Italia ha una sua particolare relazione con l’altro mondo: una sotterranea, ma non per questo meno efficace, tendenza all’autarchismo culturale, erede bifronte di fascismo e PCI, porta la nostra penisola, soprattutto le sue élite culturali conservatrici, ad essere ritrose al riconoscimento intellettuale degli americani. La vecchia Europa e blablabla: il tradizionalismo non è solo dei reazionari e dei conservatori. Pavese, uno degli artefici insieme a Vittorini dell’introduzione della letteratura americana in Italia, scrisse della scoperta e dell’amore che nutrì per la cultura americana: Durante il fascismo ciascuno di noi frequentò e amò d’amore la letteratura di un popolo, di una società lontana, e ne parlò, ne tradusse, se ne fece una patria ideale…laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi. La scoperta del Nuovo Mondo avvenne per la seconda volta a ridosso della Seconda Guerra Mondiale e divenne la patria adottiva di molti, grazie soprattutto ad un lavoro immenso di traduzione. E poi? Poi corsi e ricorsi, in questo continuo amore ed odio tra madre e figlia, conniventi, ma non disposte a riconoscerlo. Le temporanee sconfitte dei sogni di totalità e rivoluzione ci hanno fatto di nuovo voltare la testa verso quel mondo: Seattle ha aperto un piccolissimo e fragilissimo spiraglio sulla contraddizione, epicamente rappresentata dalla caduta delle Torri.


È interessante notare come il centro dell’impero si mostri anche nella sua fragilità di gigante con piedi di argilla. Per noi è ambiguità, ma per gli odierni indigeni dell’altra sponda non sembra questa la cifra di lettura. In generale il bianco e nero la fanno da padroni, parlano parole semplici e chiare, non filosofeggiano facilmente. Sono americani. Zoologia al prossimo numero. 

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Ernia inguinale: come il fumetto può trasformarsi in malattia e panacea

Catalogo "Marjane Satrape ovvero dell'ironia dell'Iran"
Pubblicato da Lizard Edizioni, 2003

ERNIA INGUINALE: COME IL FUMETTO PUÒ TRASFORMARSI IN MALATTIA E PANACEA


Esistono malattie e patemi di vario genere: esse possono colpire il fisico, la mente, l’anima, per chi ci crede. Inguine.net è una malattia che ha colpito coloro che per fato o necessità si sono imbattuti in questo essere automoltiplicatore che cresce sulla rete.

Chiaramente si tratta di un sito, e come tale ha di per se stesso le caratteristiche di un tumore maligno, con metastasi continue e irrefrenabili. Nessuno dice perché inguine si chiami inguine, ma tutti ne parlano come un essere fisicamente presente, nella versione cartesiana dell’esistenza, che cresce e pensa a prescindere da chi lo crea. Chi ne ha scritto lo ha definito organismo, chi lo realizza lo ha denominato utilizzando un termine preso dall’anatomia: già nella sua denominazione inguine.net desidera superare l’immaterialità della rete virtuale e darsi uno statuto che prevede carne, sangue, vene.


IT WILL RATHER BE A GROWING ORGANISM


Lo sviluppo di questo ectoplasmatico organismo sono le storie o le suggestioni che nascono dalle storie: ma il centro focale è il fumetto e l’illustrazione. L’obiettivo esplicito è esplorare, attraverso il contributo di illustratori, fumettisti, narratori visivi, le potenzialità della rete.

L’accumulazione non genera trance o un effetto di nausea, piuttosto ricorda esperimenti dadaisti di inizio Novecento, la sperimentazione linguistica di Quenau e fratelli. Ricorda, evoca, eppure ha un’altra personalità. Certo, è in linea con l’ipotesi dell’intervento ad incastro dell’utente, dell’uscita dalla vana fruizione passiva, ma al contempo non è un gioco interattivo, non ha una crescita puramente random, non ha la vocazione voyeristica di una chat di fumettisti, non è tecnofeticista. In qualche modo ha una direzione.

Non penso mai al futuro. Arriva sempre così presto.

Inguine.net è nato nella mente di quattro persone, credo per prima cosa come bambino della notte, ovvero come proiezione di un’attesa di cui non si conosce il profilo, a chi somiglierà, di chi prenderà i tratti, ma semplicemente come suggestione nata da una idea. In questo senso è veramente sperimentale: non si sa mai che cosa nascerà alla fine del percorso. I progetti vengono lanciati in rete, chi vuole aderisce e manda materiale, poi qualcuno rinchiuso in una stanzetta asfittica in mezzo a lattine di coca-cola, da vero tecnoragazzino, monta le immagini, crea la direzione e immagina un senso. Ma la crescita non si ferma qui: perché i contesti di fruizione cambiano e quindi cambia la cornice visiva e di percezione della cosa. Inguine si diverte ad essere presente alle mostre, ai concorsi, alle conferenze dotte sul Web. Quindi viaggia fisicamente. È stato a Sarajevo alla Biennale dei Giovani artisti del Mediterraneo. E non ha avuto pudore di mostrare la sua oraziana natura del carpe diem in mezzo ai grattacieli crivellati dai colpi di mortaio. È stato a Milano, dal salottiero Open space allo spazio okkupato dell’Happening Underground. Si è trasformato in adesivo attaccato alle stazioni ferroviarie, nelle toilette delle discoteche, nelle cabine telefoniche: proprio lui, che vive di pixel, invoca la resistenza della carta.

Orazio l’ha portato a battesimo, ma Inguine non è uscito fuori dal tempo e dallo spazio. E non pensa al futuro, lo lascia agli sciamani della previsione tecnologica. È vero che inserendosi nello spazio della rappresentazione figurale abita forzatamente la dimensione temporale, come ci ha insegnato a pensare Erich Auerbach. Nella strutturazione di frame, immagini, numeri, sonoro, la scansione temporale implica una scelta e la scelta un proprio posizionamento nel tempo, di cui il fruitore diviene oggetto. Ma l’effetto moltiplicatore e prismatico delle immagini che giungono e vengono ricreate in nuove sequenza, al di fuori di un intento commerciale, garantisce una notevole dose di prevalenza del desiderio libero dalla macchina del sistema di costruzione dell’immaginario stesso. Inguine in questo senso è un luogo agglutinante, come la lingua degli Inuit: ha radici e tematiche che possono essere declinate in base alla vocazione del singolo artista.


Ogni evoluzione del linguaggio è anche evoluzione del sentimento (T.S. Eliot)

 

Quindi ora inguine.net è qui, in una mostra non sua e ha chiamato alle armi altri autori: ha imposto loro un tema, estrapolato da una pagina di Marjane Satrapi e ha chiesto loro di reinterpretarlo, senza parole. I risultati sono interessanti; in una manciata di stili un occhio attento individua 9 diverse mani, tutte collegate con il cervello. Il gioco è sempre un po’ dadaista, ma essendo gioco bisogna stare alle regole. È come se la storia raccontata da Satrapi uscisse dalle pagine sue e continuasse a girare nella nostra memoria, a costruire nuove immagini e nuove storie. Quello insomma che succede quando si legge un bel libro o si vede un bel film: solo che qui questo processo, che normalmente è interiore, è stato esplicitato e fermato sulla carta. A ciascuno il suo.

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Intervista a Julie Doucet

Intervista a Julie Doucet, inguineMAH!gazine n°1 – anno 1 (2003)

Julie Doucet è nata nel 1965 nel Quèbec francofono. Ex-fumettista, ha vissuto a Montreal, New York, Seattle e Berlino. Attualmente vive in Canada. Nel 1991 ha vinto l’Harvey Award come miglior nuovo talento e ha pubblicato sulle più importanti riviste del settore tra cui “Weirdo”, la rivista curata da Robert Crumb. Ha pubblicato su talmente tante pubblicazioni che non abbiamo lo spazio per nominarle tutte, quindi non ne citiamo nessuna.


A domanda – risponde.


Disamorarsi del fumetto?

D: Si mormora in giro che tu stia abbandonando il fumetto, o che comunque questo stia diventando una parte molto limitata della tua attività. E’ un disamoramento o un cambiamento di indirizzo temporaneo?

R: Si, mi sono allontanata dai fumetti: sono più di tre anni e mezzo ormai, e ho paura di non essermi pentita di avere smesso di disegnare fumetti in assoluto. L’ho fatto ininterrottamente per 12 anni, non facendo nient’altro. Mi è venuto un rigurgito, ero stanca di così tanto lavoro per così pochi soldi, tanto da non avere chance di continuare a disegnare se volevo mangiare. Nessuno mi credeva quando dico che per me è storia finita, ma è vero. Sto facendo un mucchio di altre cose ora, disegno, acquaforte, xilografia, incisione in linoleum e un mucchio di piccoli libri stampati in serigrafia.


Sogni e disegni

D: In alcune strisce ci sono cronache di alcuni sogni che tu hai fatto. In altri autori i sogni hanno un ruolo in un certo senso centrale. Pernso ai sogni di Crumb e ovviamente a quelli di Zograf. Ritieni che disegnare sogni sia una sorta di flusso di coscienza e che ci siano connessioni tra il modo di narrare le storie nei fumetti e il modo con cui i sogni ci appaiano?

R: Ho disegnato i miei sogni perché erano molto strani e in un certo senso essi avevano un valore estetico per me. Nel mio modo di vedere le cose essi avevano un valore prettamente estetico, il raccontare storie e le figure… non sono molto addentro al discorso esoterico, tipo coscienza attraverso i sogni… non so come rispondere all’ultima parte della tua domanda.


Il racconto delle cose

D: Una parte caratteristica che balza agli occhi nelle tue storie è l’attenzione al dettaglio della scena, dell’ambiente che circonda i personaggi. Sembra che raccontino, a volte, più gli oggetti che i ballon. E’ stata una scelta consapevole o è nata mentre disegnavi, senza un processo di selezione?

R: In molti casi è stata una decisione consapevole lo scegliere che cosa andava raffigurato all’interno della sequenza, oggetti, dettagli ecc… a me no che tu non abbia visto qualcosa che io non vedo?


Del ritratto

D: Le ultime serie di lavori che ho avuto occasione di vedere erano “ritratti” o macchiette. Che cosa ti ha portato a lasciare il racconto narrativo e a passare alla sintesi della tavola unica?

R: Sono sempre stata affascinata dai visi, dai ritratti: trovai un fascicolo con delle foto nella spazzatura in un parco di Berlino, e realizzai una loro interpretazione in incisione in linoleum. Dal mio punto di vista tutto è concentrato sui visi, ma anche l’interpretazione, la nuova tecnica era importante. Avevo sicuramente bisogno di allontanarmi dai fumetti e fare cose radicalmente diverse, per cambiare completamente il mio approccio.


I tuoi viaggi

D: Ho saputo che hai fatto un viaggio in Francia nell’ultimo periodo. Che cosa hai visto? Pensi che la Francia sia ancora il centro almeno del mondo europeo dei fumetti o qualcosa è cambiato? Che cosa consideri più interessante al momento?

R: Ho passato dieci giorni a Parigi in gennaio. Anche se sono andata ad Angouléme, non è stato un viaggio stimolato dai fumetti. Ci sono andata solo per vedere vecchi amici. L’unica cosa che mi sento di dirti della scena del fumetto francese in questo momento è che tutti, autori, ma soprattutto gli editori, sono in guerra l’uno con l’altro! Non ho mai sentito così tante maldicenze in una volta in vita mia!!! Mi è stato detto che ciò è dovuto al proliferare di piccoli editori, e che il mercato (molto piccolo, anche in Francia) è saturo. Sono fuori dal giro delle cose nuove nel mondo del fumetto, tutto quello che posso dire è che il nuovo avviene in Europa, non negli Stati Uniti.


Tecnologia. Tecnologia??

D: La tecnologia ha un ruolo nella tua vita di tutti i giorni? E nel tuo lavoro? Che tipo di relazione hai con i nuovi media? E Che cosa sai o pensi dei fumetti in rete?

R: I computer sono meravigliosi strumenti. Amo le e-mail, amo poter mandare le mie illustrazioni ai giornali in questo modo. Li uso per scomporre i colori per la serigrafia… ma a parte questo, non ho assolutamente pazienza quando sono seduta di fronte ad uno schermo. Non funziona con me. Ho problemi nel sedermi di fronte alla tv a guardare un film senza fare nient’altro, e quindi… personalmente non vedo l’appeal dei fumetti nella rete. Uso il computer come strumento, ed ho problemi nel prenderlo in considerazione com un fine in se stesso… ma è un problema mio.

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Uno si distrae al bivio: Giuseppe Palumbo

Intervista a Julie Doucet, inguineMAH!gazine n°1 – anno 1 (2003)

Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere un’esperienza cosmopolita
Ernesto De Martino, da un’intervista radiofonica.


Museo Guttuso, Sicilia. Mostra fotografica di un iconaro fotografico del Sud, Ferdinando Scianna, dal titolo Quelli di Bagheria. L’esposizione, oltre a testi didascalici poetici e appassionati, ha per incipit questa frase di De Martino: mi sembra la giusta epigrafe anche per questo lavoro del prolifico Palumbo. È strano vedere un disegnatore non uso al mettersi al centro del racconto, osare rompere il muro dell’oggettivismo narrativo e inserirsi al centro della narrazione. La storia di Scotellaro, o meglio l’omaggio al poeta e uomo politico lucano, è soprattutto un mettersi in gioco dell’autore, un relazionarsi con il proprio “villaggio” e la propria memoria. Palumbo in questa storia è l’indiretto protagonista, un gioco di specchi che denuda il re: è vero, mi direte, che sempre alla fine del narrazione, come diceva Borges, un autore non fa che inventare o adattare geografie che disegnano il suo ritratto. Certo, a cercarlo fisicamente, il ritratto del nostro autore non lo trovo. Egli è una voce fuori campo, un interrogatore assorto e riflessivo. Il testo trasborda: tanto da fare da didascalia alla storia. Didascalico, anche, forse è questo l’aggettivo che per primo viene alla lingua alle prime due pagine: poi uno scarto, l’intervista al testimone prescelto come anello con Scotellaro. E successivamente, come in uno stemperamento della narrazione, si passa alla storia prescelta per essere narrata per immagini (siamo sempre sul didascalico, lo ammetto), Uno si distrae al bivio.

Palumbo fa una sorta di viaggio etnografico, proprio nel senso espresso da De Martino nei suoi testi: nel viaggio etnografico non si tratta di abbandonare il mondo dal quale ci sentiamo respinti e di riguadagnarlo attraverso la mediazione di una rigenerazione mitica variamente configurata, ma semplicemente si tratta di una presa di coscienza di certi limiti. In questo viaggio incontra un eroe canonizzato della sua terra, un maestro, una storia. Ma cominciamo dall’inizio. Chi era Rocco Scotellaro?


Scotellaro, amico di Carlo Levi e Manlio Levi Doria, fu una figura che sintetizzava molte delle caratteristiche del mondo meridionale alla rinascita del periodo post-bellico. Eletto sindaco giovanissimo della città di Tricarico nel 1946, collaborò con l’antropologo George Peck alla ricerca sulla comunità del suo Paese e accompagnò Friedmann in vari paesi della Lucania. Parliamo degli anni in cui anche Ernesto De Martino, proprio grazie alle ricerche condotte in Lucania, inaugurava una delle epoche più luminose per l’antropologia italiana.

Scotellaro fu in un certo senso l’interprete poetico di quelle ricerche, dell’elaborazione di un altro Sud: probabilmente un’elaborazione che non ha permesso successivamente un cambiamento adatto alla creatività, tanto che, come ci racconta indirettamente anche Palumbo, alcuni decenni più tardi tutto quel mondo intellettuale sembrava stantio, vecchio e non più interlocutore. Per chi, come Giuseppe, da lì a pochi anni avrebbe cominciato a collaborare con Frigidaire e a creare il primo supereroe masochista, quel mondo suonava come stonato e non allineato all’uscita dalla frontiera della cultura contadina e antica, non solo del meridione, ma di un’Italia che aveva ancora come simbolo un aratro. Ora però è giunto forse il momento in cui anche lui si sente trasportato dalla tempesta del tempo o forse la distanza ha fatto decantare il puzzo di muffa che si sente in paese a sentire parlare di paese.


Nella difficile strada della demarcazione tra Io e mondo, la storia di Scotellaro prescelta è un racconto paradigmatico che molto deve al mito di Ercole al bivio, e la scelta di questa precisa parola non è casuale visto che parliamo di un poeta.

Un mito antico come il mondo: da sempre infatti l’uomo si è trovato dubbioso e angosciato dal crocicchio, dalla divisione delle strade ovvero dalla scelta della direzione da prendere. Il bivio come luogo ha sempre generato ansia nel viandante ed essa andava regolata da un’apposita elaborazione culturale. I Greci avevano elaborato questo malessere, come loro solito, appioppandogli un bel mito. Ercole, l’uomo che si farà dio per buona condotta, un po’ trickster e un po’ supereroe, incontra da giovane, appartatosi in un luogo deserto per pensare, due donne: Voluttà e Virtù. Egli deve scegliere, e nella difficile operazione preferisce Virtù, intesa come valore. Questo mito ebbe molte rielaborazioni, soprattutto iconografiche, in particolare a partire dal Concilio di Trento in poi. Esso si è dissolto in moltissime rielaborazioni e sfumature, e credo che anche questa storia a fumetti, derivata dal racconto del giovane poeta di Tricarico, possa essere una lontana parente dell’antico bivio. In questo caso il bivio ha la forma di un fiume, e giustappunto non si può non pensare (questi meridionali purtroppo ti obbligano) all’eracliteo “nessuno si bagna nello stesso fiume”.

Mi sembra interessante che l’autore, nell’operazione di recupero di memoria che produce, dove appare forte anche il lavoro di elaborazione di una serie di pregiudizi del passato, scelga proprio questo racconto. Come se raccontandolo e disegnandolo, traesse anch’egli autorizzazione alla sua scelta. Scegliere di ricordare, di non spazzare via un’identità. Perché per essere cosmopoliti, bisogna avere il villaggio nel cuore: sempre De Martino delineava con molta chiarezza la necessità di avere una patria culturale, non per non avere dialogo con il mondo, ma per far sì che questo dialogo non diventasse “pettegolezzo, chiacchiera, camaleontismo”. Mettere in discussione il Meridione, per poterlo riguadagnare come patria culturale, questa la sua pratica. In questo senso Palumbo sembra portare avanti uno sguardo parallelo alla sua produzione altra con questo tipo di storie (ricordo anche una bellissima tarantata pubblicata su Blue).

L’omaggio al poeta prematuramente scomparso è malinconico e allo stesso tempo fa presentire un nuovo inizio. Il dilemma posto al giovane tra vita e morte è risolto, o così pare. E anche il dilemma di Giuseppe, di cimentarsi o meno, con questa fascina di memorie. Nell’estratto della poesia di Scotellaro che non possiamo non pubblicare, come personale omaggio al poeta lucano, ritorna il tema del bivio: egli è critico verso la strada che porta alla luna nel pozzo. Bisogna perdersi nei crocicchi delle scelte.


  1. Giovani come te


Quanti ne fissi negli occhi

superbi della strada, erranti

giovani come te.

Non hanno in ogni tasca

che mozziconi neri

di sigarette raccattate.

Non sanno che sperdersi

davanti alle lucide vetrine

alle dicende dei bar

ai tram in rapida corsa

alla pubblicità

padrona delle piazze.

Tanto perché il tempo si ammazzi

cantano una qualsiasi canzone,

in cui si chiamano fuorviati, si dicono

amanti del bassifondo

e si ripagano di comprensione.

Una canzone è per covare insano amore

contro le ragazze cioccolato

che sono un po' le stelle sempre vive

che sono la speranza

d'una vita sorpresa in un sorriso.

E quanti, ma quanti

vorrebbero la luna nel pozzo

una loro strada sicura

che non si rompa tuttora nei bivi. (…)



Rocco Scotellaro,


da Margherite e rosolacci

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