Quel sottile odore di bruciato - Danijel Zezelj

Pubblicato in Sun City, Comma22 edizioni – (2007)

Il mondo può essere salvato dai ragazzini? Esistono ancora utopici sognatori che possono credere in questa poetica ipotesi di redenzione? La città del sole è un’utopia, e come tale va ascoltata, sognata e letta. 

A essere sinceri, nel titolo di questo libro è infiltrata [Il titolo sembra citarla direttamente, visto che ne è la traduzione inglese, siamo sicuri di voler mantenere questo “infiltrata” piuttosto che “citata” o qualcosa di ancor più diretto?] piuttosto una delle prime utopie, quella dell’eretico Tommaso Campanella. Campanella fa parte di quella schiera di filosofi dell’età moderna [“moderna”, sicuri? Non so, inserisco il dubbio perché per altre cose l’età moderna è un’altra] che si trovano sul limite tra poesia, visione mistica e pensiero filosofico. Scrisse la sua opera più celebre, la Città del sole, nei primi anni del Seicento, rischiando letteralmente la pelle per quanto sosteneva. 

Si tratta di un testo che si inserisce nel genere utopistico ed è classificato come saggio filosofico, ma ci si dimentica troppo facilmente che le utopie letterarie moderne [vedi sopra] erano sostanzialmente racconti, narrazioni, in cui viaggiatori esperti dichiaravano di avere visto un mondo più perfetto; anche nel caso del frate calabrese Tommaso. Non erano i noiosi saggi che ce le raccontano oggi. Nella Città del Sole del frate condannato per eresia, la descrizione di questo mondo ideale dell’aldiqua [l’ho trovato scritto anche al di qua, a me sembra più giusta la forma che hai scelto tu, ma comunque lo virgoletterei: “aldiqua”. Senza accento, sicuro?] è condotta da Ospitalario, un cavaliere dell’ordine di Malta, e il Genovese, un nocchiero di Colombo. Si tratta di un “dialogo poetico”, che avrà grandi ripercussioni sul mondo di immaginare e comporre un altro mondo possibile, insieme ad altre opere simili come il famoso Utopia di Thomas Moore. 

Queste utopie del mondo moderno erano visibilmente storie di immaginazione, unite allo sguardo iperuranio di personaggi nutriti di neoplatonismo. La filosofia, la ricerca alchemica, l’interesse per la magia e le tecniche mnemoniche, tutto si amalgamava e contribuiva a creare un racconto, non un freddo saggio. La narratività offriva una chiave per rendere accessibile un pensiero che altrimenti sarebbe potuto essere troppo complesso, lontano. 

A questi primi utopisti il vestito del personaggio di Socrate nella cesta nelle Nuvole di Aristofane sarebbe stato alla meraviglia. Ovviamente la parodia dissacratoria di Aristofane del pensiero socratico e platonico prevede una buona dose di cinismo. La parodia ci insegna che le parole di chi predica utopia sono tutti giochi illusori di abili cialtroni. La narrazione di un mondo altro ci prende in giro, attenzione. Non fatevi abbindolare, non abbandonate la dea ragione per starvene in una cesta a scrutare le idee.  

Zezelj pone prima del suo libro un avvertimento: attenti o voi che entrate nel mio mondo, questo libro non è fatto per i cinici. Non è fatto per chi ha perso le briciole dei propri sogni sull’altare della dea realista più del re. E quindi in questo senso è fatto per gli accoliti di Campanella, di Bruno, di tutti coloro che hanno sentito da vicino il calore del fuoco dei roghi per i sognatori. Zezelj ha scelto la via narrativa e la via della visione. È una strada pericolosa, che ha condotto Giordano Bruno al rogo, Campanella in cella per molti anni, a Moore fu tagliata la testa e fatta penzolare sul London Bridge per un mese. Ma è anche una strada che porta dritto alla poesia.


E che razza di sogno è questo di Zezelj? Una città che vive dopo il disastro. Se nel paradigma di Campanella la città del sole [o “città del sole”?] è il luogo della Nuova Era, segnata dalla presenza del tempio del sole al centro, simbolo della rivoluzione copernicana, nell’urbe di Danijel il sole è scomparso. Non si sa perché, né quando, non sono domande importanti. Siamo in una città in cui l’alito dell’apocalisse ha lasciato un alone nebbioso, giusto quel poco che può farla assomigliare a una metropoli che ben conosciamo. È una città che ne ricorda molte altre, ci sono decollage [decollage, corsivo?]di manifesti che abbiamo visto velocemente dai tram in fila nel traffico, eppure non è una città che esiste sulla carta geografica. [a capo?]Conosco un architetto che si è laureato utilizzando alcune immagini di Zezelj per la sua tesi [la prima persona la eviterei sempre, abbassa il tono e la validità dell’esempio, che sembra meno universale ma solo un caso. Eviterei di apparire nel pezzo]. Sostiene che sono immagini urbane che possono essere utilizzate per tutte le metropoli del mondo. È la possibilità combinatoria del luogo utopico: assomiglia per molti versi a casa nostra, ma non è il nostro focolare. E un nomade nell’animo come Zezelj conosce perfettamente la labilità e il rischio del senso di appartenenza a un unico luogo. Il pensiero utopico ha bisogno di essere libero dal nome della città, della nazione, della bandiera. È il luogo puro, senza connotazioni, un luogo che ne condensa molti altri, un paradigma visivo. 

La città del sole di Zezelj non è però un topos consolatorio, dove vediamo schiere di casette rosa con giardino e aiuole, come le Sun City di Del Web. Ci sono grandi grattacieli, impalcature, highways. E tutto è in bianco e nero. 

Vi abita il bambino che disegna i soli, con il suo protettore gorilla, ma c’è anche lo sfregiato senza occhio. Il suo occhio mancante assomiglia a un sole, ma non lo è. È abitato dal dolore. È di quelli che ridono di Socrate nella cesta. La vita è solo dolore. Non c’è un altro luogo.  

La fata è egoista. Si chiama Semolina. Ha lasciato anche un pezzo di manifesto dell’Eridania sul foglio, per ricordarci che è tutta zucchero. Ma è solo pubblicità, un orecchio aperto per chiudere gli occhi e il pensiero. Una fata egoista che passeggia solo di notte non può che alleviare qualche piccola puntura di zanzara, allentare qualche coltello, aggiustare le carte truccate, fare ciò che può la buona amministrazione. Ma non costruisce i sogni. È una Mary Poppins che si tiene le zollette per sé. Ci vuole la mano libera del ragazzino che dipinge sui muri e che persegue un sogno cabalistico [prima avresti potuto fare un accenno ai contenuti esoterici di Campanella e Bruno, e di molti utopisti, in cui l’esoterismo è più una forma di anarchia e di liberazione dell’io contro l’establishment che segnale di casta], disegnare 100 soli. 

La città di Zezelj non è una città in cui mi piacerebbe passeggiare di notte. Non ho un amico gorilla che mi protegge. Non sono più ragazzina. Nel dialogo poetico di Sun City ho scorto il gioco di parole di Socrate nella cesta, l’Arte del Kamikaze non esiste. [anche tutta questa parte in prima persona mi sembra che faccia scendere il pezzo a un tono privato e un po’ intimista che cozza con la struttura generale, si può girare in maniera impersonale che mi sembra anche più efficace] È il cuore del Kamikaze. Cercatelo anche voi tra le righe. Rileggete il libro e ditemi cosa ne pensate. Ci sono luoghi così, senza sole, senza posto per chi disegna un sole sui muri. È un mondo stretto, dove il tempo passa e fa tic-tac, tic-tac, il mio paese natale è una terra insanguinata. Quando è stato? Un secolo fa, bambino. Non avere paura, nel terribile novecento. Novecento quanto? Un tempo lontano, il 13 gennaio 1994 Mladic festeggiava il capodanno ortodosso bombardando Sarajevo. Il sole non c’è più.

Il 29 marzo viene attaccata Gorazde, 700 morti tra i civili, un secolo fa, nel 1994. Che cosa abbiamo stasera? Un’altra guerra? Una malattia sconosciuta…Dove sono gli eroi? I supereroi hanno le rughe, ce lo ha insegnato Alan Moore. Anche Pippo si è perduto. Ci vorrebbe un Annibale con i suoi terribili elefanti. Non c’è utopia senza eroi, senza Pippo, senza sole. Il nostro disegnatore si sposta con il suo tic-tac verso la visione della antiutopia, del luogo nero descritto da Huxley, Orwell, un secolo fa. [NB in generale confronta e aggiorna i riferimenti con la traduzione definitiva. Certe cose, tipo Annibale, Danijel le ha addirittura tolte dal testo originale]

Susan Sontag si sarebbe fermata qui, lei era scettica sul potere della visione dell’apocalissi della sciente fiction [science-fiction? Fantascienza?], anche se ne intravedeva delle qualità, perché pensava che ci fossero due terribili destini, apparentemente opposti, da vincere: un’irreversibile banalità e un inconcepibile terrore. Entrambi questi destini possono essere evitati dall’uso della fantasia, e quindi della letteratura utopica. Zezelj infatti ci salva nell’epilogo. Non ci lascia da soli, anche se Annibale [vedi sopra, a proposito dei riferimenti nel testo] si è suicidato, e i supereroi hanno le calzamaglie bucate. Siamo stati nel novecento, un secolo fa. Siamo sopravvissuti e il nuovo secolo ticchetta sotto di noi e brulica di uomini con un tatuaggio sull’occhio. 

Anche Susan Sontag ci ha lasciato. Ci rimane un certo odore di bruciato sulla pelle quando finiamo Sun City, il fumetto poetico di Zezelj. E ne siamo orgogliosi.