Abecedario della storia sotto il tappeto

Pubblicato nel catalogo R.A.M. 2011, GIUDA edizioni, Ravenna

RAM è la selezione biennale curata da Associazione Mirada per conto del Comune di Ravenna, che permette ai giovani artisti visivi del nostro territorio da ormai dieci anni di crescere e farsi conoscere a livello regionale, nazionale e internazionale.

RAM non è solo la mostra, che costituisce sicuramente il momento più importante ma non conclusivo di questo percorso, ma è un progetto complessivo di affiancamento e crescita degli artisti coinvolti, attraverso il confronto con i curatori e i critici, la proposta progettuale e la costruzione di un processo di comunità artistica più in generale.

Il tema individuato per l’edizione 2011 si rapporta ancora una volta con la città e i suoi umori, recuperando temi, simboli, suggestioni che appartengono all’humus di Ravenna, rivisitati con l’occhio e le mani degli artisti. Partendo dalla prolusione di Sauro Mattarelli in occasione della visita del Presidente della Repubblica alTeatro Alighieri, che produceva una serie di esempi di nodi storici e lasciti piuttosto nascosti che gridati nella nostra città, i vincitori di RAM hanno lavorato confrontandosi con i critici, su questo ipotetico abecedario “sotto il tappeto” che forma la nostra identità culturale. Alberi della libertà, permanenza dell’esilio a partire dal più famoso profugo politico ovvero Dante, movimenti anarchici e socialisti, accoltellatori, sono alcune delle suggestioni che hanno condotto alla realizzazione delle opere.

RAM non finisce con la conclusione della mostra, ma continua attraverso l’attività dell’ufficio giovani artisti del Comune di Ravenna che si occupa di diffondere e sostenere la partecipazione degli artisti under 35 locali alle occasioni per loro pensate a livello nazionale. La comunità artistica è fatta di voci e incontri, perché come diceva Lévinas l’Altro venendomi incontro mi espelle dalla mia solitudine. 


Uomini e donne il cui esilio viene connotato con troppo facilità con altri nomi, con quasi titubanza nell'attribuire un termine che ha una vocazione intellettuale a chi è fuggito dal proprio Paese non per scelta, ma per l'impossibilità di essere cittadini. 

Adorno sosteneva a sua volta che “le case sono sempre provvisorie” per l'esule e per il profugo: la provvisorietà ha permesso a molti degli esiliati che anche in anni passati sono stati ospiti silenziosi della nostra città di fare ritorno, il ritorno che, come diceva sempre l'intellettuale palestinese, non può essere mai un ritorno totale e un rimpatrio definitivo, perché l'esperienza dell'altrove ci cambia e torneremo lasciandoci alle spalle un altro passato.

Pochi in realtà sono rimasti, anche se Ravenna è stata terra ospitale in diverse occasioni negli ultimi decenni, ed anche per questi la provvisorietà data l'esperienza della Terra – Patria è diventata spazio in cui costruire una vita. 


Nel lavoro di Molinari, che ha scelto di interrogare proprio questo nodo dell'abecedario del rimosso,  emergono tutti questi elementi, fermati in un'istantanea che non dimentica un'altra delle qualità invocate da Said, ovvero l'ironia. Le immagini continuano ad essere interrogative e non didascaliche. Il volto dell'Altro (con la maiuscola come voleva Lèvinas) è coperto dalla maschera simbolica di un personaggio che evoca ibridazioni. La personalità della maschera dialoga con la figura del protagonista della foto, fa emergere possibilità, radica la profondità dei vissuti. Difficile infatti attribuire immaginario alle vite dei profughi, sempre costretti dal cartellino che li ingabbia, da un passaporto simbolicamente bianco. La maschera, nella sua teatralità e nel suo valore antropologico, restituisce spessore e narrazione, fa scattare una reazione ironica. “E se fosse lui, Einstein, effettivamente esule, in questa provvisoria dimora che capita nella nostra città?”. E se fossimo umani, troppo umani. La valvola dell'empatia è spesso occlusa dalla potente colla del preconcetto, che agisce in positivo o negativo, non prendiamoci in giro. Le fotografie di Molinari hanno valore euristico nel senso primo della parola: ci fanno recuperare profondità e vissuto, attraverso lo scarto propulsivo dell'ironia, che è un potente dispositivo di comprensione. 

José Antonio Vargas, premio Pulitzer negli USA e uno dei più importanti giornalisti a stelle e strisce, ha fatto il suo scoop più significativo dichiarando sul New York Times la sua condizione di clandestino. Che è ovviamente cosa diversa dall'asilo politico, ma forse dovremmo cominciare a ragionare in termini diversi di cittadinanza planetaria, di patria terra per dirla con Morin. 

Nell'opportunità di essere altrove e creare relazioni e tracce sta la possibilità della crescita, della disseminazione delle storie e l'implosione dei significativi del visivo antropologico di Molinari, fotografo indagatore e costruttore di ponti.