Massimiliano Fabbri e il "volto" di Selvatico

Massimiliano Fabbri (Faenza, 1972) è un artista totale: pittore, curatore, agitatore culturale, un loquace e poliedrico affamato di arte, che carpisce ai bambini i piccoli e grandi segreti dello sguardo disincantato. Vive a Cotignola, dove è anche cresciuto, dove anche lavora, dove organizza mostre e rassegne che fanno impallidire i vicini parigini. 


Come sei diventato pittore? Era quello che volevi fare da piccolo?

«No, da piccolo volevo fare il fumettista... Poi una serie di incontri in Accademia a Bologna, una serie di gesti banali o semplici, che in realtà non lo erano, hanno sviato il mio percorso. Pulini ad esempio la prima volta che ha visto il mio lavoro mi ha portato alla biblioteca del Dams e mi ha aperto un libro di Lucien Freud e uno di Auerbach. Scoprii che c'erano altri che avevano allenato lo sguardo a cercare quello che io con fatica cercavo. Fu un gesto che ritengo importante, anche adesso: l'arte è un luogo di furti, di metabolismo continuo di ciò che c'è già stato». 

E quindi abbandonasti il fumetto...

«Non so dirti perché, continuo a leggere fumetti, ma dopo il Liceo Artistico a Ravenna l’unica sicurezza che avevo era che volevo andarmene, ma l’unica soluzione era una scuola di fumetto a Milano, che però era fuori dal mio budget. Era una fase in cui Bologna era un territorio fertile, era un bel modo per aprire gli occhi». 


C'è stata quindi questa conversione sulla via per Damasco...

«Non so se si possa parlare di conversione... Ancora oggi è una cosa un po' urticante per me la divisione per settori. Oggi il fumetto è per me uno specchio che guarda il mondo in maniera trasversale, è un luogo di scontri, mescola il popolare con  visioni diciamo più alte». 


Questa tua opposizione alla divisione con l'accetta si vede anche nel tuo operare... In questi progetti che tu attivi come curatore sei come un compositore polifonico, metti una nota e poi dici ora fatemi un'orchestra, e mescoli generi e persone. 

«L'artista non è un lavoro che si fa in solitudine. Serve, ma ho sempre avuto bisogno di qualche cosa che mettesse in atto una specie di traduzione di questo tipo di solitudine con un passo verso o con gli altri. Per vivere in questi anni ho fatto altro, ho lavorato per i bambini, questa cosa mi ha nutrito molto e costretto a non usare trabocchetti. Davanti ai bambini sei costretto a smontare i meccanismi. Il lavoro di curatore, anche se non è proprio il termine giusto per me, porta a creare lavori collettivi: credo di portare lo stesso sguardo di artista in questo operare. Sono d'altro canto il contrario della “fuga di cervelli”. Mi sono trovato a lavorare nello stesso posto in cui ho passato i pomeriggi da bambino: casa Varoli è di fronte alle case popolari dove vivevo. È una roba terribile: hai un’erosione della memoria quotidiana, non c’è qualcosa che puoi mettere nel cassetto per i momenti commoventi. Mettevo in fila i miei soldatini lì, ma ogni giorno ci timbro anche il cartellino. Per un artista la scelta più intelligente è andare nel mondo, l'altra scelta, quella più stupida da un certo punto di vista, è quella di rimanere sul proprio territorio...» 

A te è toccata la seconda...

«La provincia è quella di qualsiasi provincia. Parlando di Selvatico, la rassegna che io curo, non potrebbe essere in città neanche come Bologna. Il titolo originale era difatti “rassegna di campagna”, la dimensione dell'isolamento era il motore di tutto questo movimento. Non può andare altrove. Devi avere un rapporto familiare con questi spazi». 

 

E il tuo rapporto con Varoli? 

«Sono cotignolese, e come per tutti Varoli è un nome intoccabile. Da giovane lo vedi come un padre, quindi lo devi uccidere. Per un giovane artista è un artista post impressionista, senza assalti e fughe. Ma poi scopri che è multiforme. Lavoro per uno dei musei che reputo tra i più divertenti della bassa Romagna. Negli ultimi anni mi sono occupato del Varoli giusto, della resistenza passiva operata da lui, dal prete Argnani, e da Vittorio Zanzi, che aveva una carica fascista, ma che fascista non era, che permise di salvare 41 ebrei dallo sterminio. C’è il piccolo cenacolo che lui formò, con artisti che poi lo superarono. È stato un raccoglitore di oggetti strani, un insegnante tra i primi in Italia a dare importanza al disegno infantile. Credo che quello che fa Selvatico, portare persone in luoghi che difficilmente sarebbero da loro attraversati, sia una pratica vicina alla sensibilità varoliana». 

 

In questa edizione di Selvatico, che è iniziata a Conselice con il Collettivo FX e altri, quale sarà la nota che guiderà la tua composizione visiva?

«Sono partito da una mia ossessione. Un innamoramento che è tornato negli ultimi mesi, che è il volto. Non tanto come genere a sé, ma come tema che permette di credere ancora nella possibilità che quello che abbiamo disegnato, dipinto ci guardi a sua volta. E quindi mettere al centro anche lo spettatore, perché il volto è uno specchio, lavori con i fantasmi. Dico scherzando che Selvatico è diventato grande e si può permettere di affrontare un tema che fa tremare le gambe. Negli ultimi anni disegnavo solo paesaggi, natura. Era un lavoro domestico, potevo interrompere e riprendere. Rispondeva anche a dinamiche familiari. Mentre la pittura richiede un tempo monastico. Poi ho ripreso a interrogarmi sui volti. Dopo il Bianco e il Nero di Selvatico, mi sembrava che ragionare sui colori fosse un tema esaurito. Così ci saranno artisti nuovi, mai visti a Selvatico, e altri già incrociati. Selvatico parte dalle memorie, dalle identità dei Comuni della bassa: volevamo allargarlo a tutti e nove. A Conselice ad esempio non c'è nessun museo sul quale lavorare, quindi ci siamo collegati al progetto di muri pubblici di Pellegrini che è uno scenografo. Le cose sono date anche da coincidenze, un'affinità, come quella con il Collettivo FX, Dissenso Cognitivo, e molti altri». 

 

E il catalogo, che è sempre un oggetto molto bello del progetto Selvatico? 

«Esce il 30 novembre in coincidenza con la prima mostra, ed affronta il tema dei volti da molteplici punti di vista. Solo l'arte contemporanea ci sembrava poco. Ci sono ad esempio disegni dei bambini, in collaborazione con Pinac, l'unica pinacoteca italiana e un modello d'eccellenza a livello internazionale, del disegno infantile. C’è un percorso sulla fotografia che si intitola Lo scudo di Perseo, pensato insieme a Buda e Casadio, in cui interpretiamo la macchina fotografica come fosse uno scudo per tagliare la testa al mostro e vedere meglio. C'è il video, c'è un continuo mescolamento. Ci sono i collezionisti privati dell'area lughese, una quadreria come una sorta di flusso...Difficile numerare ed elencare tutti gli artisti coinvolti e i rivoli selvatici. L'unico modo è muoversi e vedere».

 

Per info dettagliate sulle mostre e gli artisti  http://museovaroli.blogspot.it