Il voto greco ci racconta chi siamo diventati

Nel giardino di mia nonna ad Atene nel 1972
Nel giardino di mia nonna ad Atene nel 1972

È andata così: esco alle 2 di notte da un localino underground, dove con amici abbiamo suonato e bevuto svariate birre. Bella serata, bel clima. Andando a casa vedo file di gente ai bancomat. Dico: “Caro, siamo in guerra?”. “Macché — mi risponde lui — la gente esce e rimane senza soldi…”.Arrivata a casa accendo la Tv. E so che non abbiamo firmato l’accordo capestro. Tiro un respiro di sollievo. Meglio la guerra simbolica che quella vera». Così mi racconta mia cugina al telefono domenica. Lei ha un negozio di vestiti da donna e fa anche vestiti su misura, ha studiato moda a Roma. Fino a qualche anno fa la sua attività era una piccola fabbrica di soldi, ora stringe denti e cordone della spesa.


«Che vuoi fare — aggiunge –. Non si può vendere anche la dignità». «Ma dicono che Tsipras perderà il referendum…». Alla mia obiezione scatta una grassa risata: «Chi dice una fesseria del genere? Persino le televisioni prezzolate dagli ex partiti di governo danno il no all’83 percento». Io rimango interdetta, e anche un po’ senza parole… Ancora una volta la superficialità dell’informazione di flusso colpisce come un mitra: «Non so, gira questo sondaggio… L’ho letto su Facebook». Scopro poco dopo che si trattava di un sondaggio online fatto da un quotidiano il giorno prima del discorso di Tsipras e che misurava l’europeismo ellenico. «Guarda, ogni volta che esce Dijsselbloem e apre la bocca 10 sì diventano 10 no. Hanno pestato troppi calli. Lo sai come sono i greci… Non gli toccare la bandiera, il senso d’orgoglio nazionale. Ci trattano come ladri e imbroglioni… E continuano a fare l’occhiolino a chi ci ha ridotto così. E poi, prendi ad esempio la zia Zacha. Prende 350 euro di pensione al mese: che gliele riduca la Merkel o il default… Almeno nel secondo caso avrà salvato la propria dignità».


Ecco, non so se anche in me si sia accesa quella fiammella dell’orgoglio, se sia il callo pestato che duole, se semplicemente mi sembra che la storia in questo strano paese stia scorrendo veloce e non la voglio perdere, ma penso che vorrei andare a votare. Ne ho sempre avuto diritto: sono nata in Italia, ma come tutti coloro che nascono qui da genitori non italiani, ho acquisito la cittadinanza a 19 anni. Prima avevo il permesso di soggiorno. E la cittadinanza greca non la perdi neanche se ti travesti da ottomano. Eppure non l’ho mai esercitato il diritto di voto. Ho sempre fatto prevalere il principio civico di agire come elettrice dove vivo, e non dove vivono i miei numerosi parenti. Questa volta però è diverso: il voto mi sembra europeo. È un riappropriarsi di quella voce che spesso viene addormentata dal cloroformio del «niente cambia, tutto è scritto, questa è l’unica via possibile». Una retorica spietata e travolgente, malgrado i dati allarmanti sulla disparità sociale anche nel vecchio Continente. Ricchi sempre più ricchi, poveri sempre di più (e meno garantiti). Il discorso menzognero di una classe dirigente che rinnega persino quello che scrive sembra non essere leggibile anche da chi ci si trova in mezzo alla diseguaglianza e alla disparità. La favola del cattivo bambino, che non ha pagato il gelato che ha mangiato, è semplice e potente, molto di più dell’analisi economico e finanziaria dei dati del debito greco, semplicemente cresciuto come un tumore impazzito grazie alla cura finora attuata.

I socialisti del Pasok e i conservatori di Nuova Democrazia, che hanno tenuto le redini del paese dal 1974, hanno eseguito in modo puntuale e obbediente le ricette che il farmacista ha loro prescritto. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, e hanno portato il paese che ha inventato la parola Europa a scendere in un baratro da cui sembra difficile risollevarsi. Difficile, ma non impossibile. Questa è la differenza di questo strano governo, il cui premier scravattato crea un panico comprensibile: è proprio diverso. Anagraficamente, politicamente, ha amici diversi. Si guardano e fanno fatica a riconoscersi questi dinosauri della politica, che gestiscono il potere da generazioni (provate a guardare le loro biografie e capirete di cosa parlo) e questi nuovi arrivati, che sono stati esclusi dal potere storicamente.

Per dire, io sono la prima (e finora unica) dipendente pubblica della mia numerosissima famiglia (14 cugini di primo grado per capirci): quando vinsi il concorso per diventare insegnante, mia nonna si bevve un brandy per festeggiare. Chi era di sinistra per generazioni non ci pensava proprio e non poteva entrare nell’apparato pubblico. Parlo di questa esclusione, non di vincere le elezioni. Eppure è successo: ora le carte sono sparigliate, le piaghe purulente e visibili. Sembra che nessuno riesca ad immaginare cosa può succedere. Ma questa è la politica, immaginare il possibile e provare a costruire nuovi orizzonti.

Pubblicato sul settimanale Ravenna e dintorni del 3 luglio 2015