Siamo tutti pronipoti di Mosè. E forse più che delle differenze, sarebbe il caso di tornare a parlare di analogie, luoghi e valori comuni, percorsi fatti insieme.
Il Museo interreligioso di Bertinoro ci invita nel suo nuovo allestimento, rivisitato nel 2015 al cui centro c'è l'esperienza del monoteismo, a riflettere su ciò che ci unisce, piuttosto che su quello che divide. Il monoteismo inteso nelle sue tre espressioni: l'ebraismo, il capostipite, il cristianesimo,ovvero il figlio che vuole essere padre e che si emancipa, ma senza un interesse alle sue numerose accezioni, l'islam, come nipote tardivo, ma non per questo meno vicino. Il termine interreligioso è proprio la chiave di volta di questo particolare luogo, ospitato nella cisterna del '500 e nelle segrete medioevali della Rocca non lontana da Cesena. Un luogo inusuale: non è un museo di Storia delle religioni, non è neanche un museo che nasce da una collezione di oggetti sacri, da una esperienza in qualche modo della tradizione. È invece una scommessa innanzitutto del mondo accademico. L'idea nacque nel 1995 da un accordo tra atenei: Bologna, Thessaloniki, Tunisi, Ankara, Heidelberg, Gerusalemme, la Pontificia Università Gregoriana e l’Università Pontificia Antonianum. Era l'epoca, che sembra ormai lontana, in cui uno dei leit motiv era ricreare un asse del Mediterraneo, favorire il dialogo e la collaborazione sul bacino del Mar Bianco, come viene chiamato dagli arabi e dai turchi. Ovviamente ci fu anche un sostegno politico importante, in particolare del senatore dell DC Leonardo Melandri, a cui ora il Museo dedica un premio. Poi ci furono i tempi per fare maturare idea, luogo, progetto, e nel 2004 aprì i battenti. Ora, in tempi sicuramente cambiati per la percezione della questione della fede, tempi in cui convivono due Papi, per dire, questo luogo è sicuramente cruciale come contesto di riflessione, come accesso alle questioni nodali. Quesiti e risposte che si incrociano e che allo stesso tempo dividono, ahimè, gli uomini e le donne di fedi diverse.
Serigne Mbacké, un cosiddetto marabutto, della confraternita sufi senegalese dei Murid, ha vinto il premio nel 2012 e dell'esperienza del museo ha detto: “Durante i miei numerosi viaggi in tutto il mondo, come musulmano ho camminato sulle orme dell’ebreo e del cristiano, alzando la bandiera della condivisione, ma in nessun altro luogo ho trovato tante testimonianze artistiche che ripercorrono, nei tempi e in un piccolo spazio, l’incrollabile volontà degli uomini di vivere un destino comune.”
E destino comune è sicuramente la traccia che ha seguito chi ha pensato questo originale percorso espositivo, che si apre sulla ricostruzione del Sancta Sanctorum, in cui si può vedere una copia dell'arca dell'allenza e sentire l'odore dell'incenso, in un'esperienza multisensoriale che permette, attraverso gli approfondimenti multimediali, di chiarire dubbi e fugare paure e pregiudizi. Oltre alle ricostruzioni della sezione Radici storiche, c'è la parte Monographica, in cui dalle origini comuni si passa agli elementi che costituiscono l'ideantità di ciascuna comunità. È sicuramente la parte più interessante dal punto di vista artistico, con l'acquaforte di Rembrandt e il Sarcofago dogmatico, un interessante sepolcro dell'epoca costantiniana, che mette su pietra i dettami del dogma di Nicea. Questa cassa in pietra calcarea, divoratrice di cadaveri (è il significato etimologico della parola sarcofago...) ci racconta dell'inizio del cristianesim, di come nasca la Chiesa con una guida non più fatta di elementi singoli, comunità a volte poco accettate o addirittura perseguitate, ma come una religione che si struttura su regole gerarchiche, su interpretazioni non più discutibili. E infine la sezione Monoteismo in cui, attraverso la ricostruzione delle figure di Mosè, Gesù e Maometto gli allestitori si pongono l'obiettivo di “affrontare la questione della presenza di Dio nella storia”. Un quesito hegeliano direi...
Certo, per noi agnostici, atei e miscredenti, lo spazio sembra limitato: la parola Verità coniugata a quella di esperienza siedono vicine in questo luogo. E certo per chi non ha mai trovato risposte in un percorso di tipo religioso l'eco di questo museo può apparire flebile. Forse che non credere al politeismo egizio rende meno coinvolgente una visita al Museo di Torino? È proprio nella conoscenza e nell'incontro che si fonda il principio del relativismo, che non significa rinuncia alla conoscenza dell'altro. Paul Veyne sosteneva “che il mestiere dello storico consiste nel dare alla società in cui vive il senso della relatività dei suoi valori”. Per un occhio non legato a nessuna della fedi monoteistiche di cui si sperimentano visioni, testi, simboli, questo è il risultato primario. Ma ancor più interessante è forse l'esito per chi pensa di conoscere la propria fede, dimenticando le altre. In tempi di oscurantismo e propaganda violenta, in cui il massimo che si può auspicare è il buon senso, bisogna ritornare alla profonda conoscenza che può essere uno schermo protettivo verso le derive fondamentalistiche di ogni genere. Far conoscere le storie, le esperienze, i contesti religiosi che hanno determinato la storia di questa Europa zoppa e di questo Mediterraneo al cui centro oggi c'è un muro, potrebbe senz'altro contribuire a togliere qualche muro dentro di noi.