La schiena di Zehra e le altre. Prigione n°5


Piegati, amore, finché non passa la tempesta

Mi sono piegata così tanto che la mia schiena è diventata un arco. Quando scoccherai la tua freccia?

(Allunghi le mani e trovi una manciata di farina)

 

Piegati, amore, finche non passa la tempesta

Mi sono piegata così tanto che la mia schiena è diventata un ponte. Quando lo attraverserai?

(Cerchi di spostare il piede, ma il ferro non si sposta)

 

Piegati, amore, finché non passa la tempesta

Mi sono piegata così tanto che la mia schiena è diventata un punto interrogativo. Quando risponderai?

(L'agente che conduce l'interrogatorio mette un disco pieno di applausi).

 

Mahmud Darwish,
Diario di ordinaria tristezza, in Una trilogia palestinese, Milano 2014, p. 57


Darwish, insieme a Edward Said, è la voce che testimonia l'esistenza della cultura palestinese, il popolo senza patria per eccellenza, dicono. Dicono perché la terra che loro abitavano è stata concessa ad altri come risarcimento per il grande male che l'Europa aveva commesso verso di loro. Anche i curdi sono un popolo senza patria, ma non essendo legato questo spoglio, almeno direttamente, alle mani delle potenze occidentali, spesso sono dimenticati nell'elenco dei senza terra. C'è però un'altra ragione: il nostro ondivago oblio, che si ricorda dei curdi quando diventano utili alleati on the ground per dirimere conflitti in cui anche gli eserciti più forti della terra si trovano in difficoltà, è rinforzato dall'assenza delle voci di questo popolo, dalla insipienza nostra verso questa specifica cultura. Zehra Doğan si è trovata ad essere la voce più autorevole, la sintesi iconica di queste molte voci silenziate. E non è un caso che sia una donna.

L'assertività del percorso artistico, politico ed intellettuale di Zehra e delle altre si basa su un presupposto ideologico importante, che viene ripreso anche in questa importante Graphic Memoir, ovvero la gineologia (in curdo jineolojî) messa a punto dal prigioniero politico zero dell'odierno regime turco, Öcalan. Nel testo Liberare la vita - La rivoluzione delle donne pubblicato in inglese nel 2013, che comprende suoi testi precedenti al rapimento e all'arresto del 1999, l'ideologo curdo analizzava il processo antropologico che ha portato alla costruzione del patriarcato, riflettendo sull'esperienza socialista e sui suoi limiti rispetto ai processi liberatori, facendolo concludere che senza un processo completo di liberazione del femminile la libertà non può essere conseguita pienamente. 

Le sue teorie si sono tradotte in pratiche di governo e di istruzione in Rojava e anche nelle città che sono state guidate da sindaci e sindache curdi, ma soprattutto si sono innestate in una cultura, che come tutte subisce processi di trasformazione sociale che partono dalla narrazione culturale, e sono divenute una delle componenti fondamentali del pensiero politico connesso al processo di emancipazione del popolo curdo. 

 

La Scienza delle donne, come la definisce il leader del PKK, è il presupposto che sta alla base di questo libro, dell'esperienza di Zehra e delle molte altre detenute politiche e non, nelle carceri turche, ma anche siriane. Lo è nel senso che senza questa forte determinazione a prendere la parola, a dirsi protagoniste della propria vita e del cambiamento, non si capirebbe da dove emerge questa assenza profonda di vittimismo, questo ribaltare i ruoli tra vittima e carnefice. Molti commentatori l'hanno definita determinazione alla speranza, che è anche una virtù teologale connessa con la fede nella felicità eterna, ed è quindi una categoria utopistica e che pone fuori dal portato politico l'orizzonte della felicità. Non rappresenta quindi in modo corretto lo sguardo delle attiviste curde, schiettamente femministe e impegnate a costruire in questo mondo una realtà diversa.

Da quando la conosco e curo il suo lavoro d'artista, ho potuto notare quanto questa intrinseca connessione tra identità politica e fare artistico mettesse in difficoltà i suoi interlocutori occidentali. Joyce Lussu, la straordinaria mediatrice tra noi e Nazim Hikmet, scriveva di lui: Vita e poesia, azione e parola, erano legate in modo così organico e solare, che è illuminante per conoscere la sua poesia, conoscere le sue vicende. Lo stesso si può dire di Doğan, parafrasando però la parola vicende con "la cultura politica del femminismo curdo". E anche questo libro ne è testimonianza. 

Siamo di fronte ad un testo dallo straordinario valore storico, antropologico, artistico. Che si inserisce ovviamente nel filone della letteratura carceraria (che da Boezio a Marco Polo ci è nota), passando attraverso l'egiziana Nawal El Saadawi, che reclusa da Sadat nel 1981 a seguito delle sue critiche alle politiche governative non solo non smise di scrivere - Il pericolo ha fatto parte della mia vita da quando ho preso in mano una penna e ho scritto. Niente è più pericoloso della verità in un mondo che mente - ma lo fece usando qualsiasi cosa fosse a portata di mano, come ha fatto Zehra in carcere. Lo fece soprattutto senza dimenticare le altre, perché come scrive Zehra "senza le altre sei perduta" e quindi Nawal appena uscita fondò l'Associazione Arab Women Solidarity. Chiaramente c'è nella narrazione sull'enorme prigione turca sempre come riferimento Nazim Hikmet e il suo Poema dal carcere. C'è quindi un mondo di rimandi e sottili emersioni di questa linea rossa della letteratura umana reclusa che è tutta humus per questo fumetto, scritto sul retro delle lettere ricevute da un'amica attivista turca naturalizzata francese, durante il periodo di prigionia. 

 

C'è però una peculiarità che va subito riconosciuta e circoscritta, ed è che si tratta del primo fumetto realizzato in un carcere in diretta, fatto "evadere" come le opere dell'artista attraverso una rete di attivisti, realizzato quindi in stretta collaborazione con le altre e in forma mista, disegnata e scritta. C'è infatti anche una certa tradizione del fumetto carcerario, cito ad esempio In prigione del giapponese Hanawa, o Pericolose in cui la protagonista della storia Zezè è stata coadiuvata da Hermans nel renderla una Graphic, o il più letterario ma ugualmente forte e diretto Una metamorfosi iraniana di Mana Neyestani, in cui gli autori e autrici sono anche testimoni diretti dell'esperienza carceraria narrata. Tuttavia qui siamo di fronte a qualcosa di diverso, perché in tutti gli altri casi menzionati si tratta di una rielaborazione personale dell'esperienza di reclusione fatta ex post, una volta fuori dalle mura. Qui invece abbiamo il "privilegio" di entrare nelle celle della prigione 5, e in quella di Tarso, nel momento in cui Zehra disegna e scrive. Siamo di fronte a un documento storico, oltreché artistico. 

 

Mi soffermo un attimo anche su quest'ultimo aggettivo, perché anche in questo c'è un post quem, una unicità. Si tratta infatti di di un fumetto di un'artista, che al momento dell'arresto era piuttosto conosciuta per la sua attività di giornalista, per la quale aveva ricevuto il prestigioso premio Metin Göktepe nel 2015 per il suo lavoro di indagine sul campo sulle donne yazide. Il premio, ricevuto a soli 26 anni, viene conferito in memoria del giornalista omonimo, morto sotto la custodia della polizia nel 1988 e in un certo senso fu una sorta di profezia che in parte si è auto avverata. Comunque arrestata e condannata per un disegno, formata all'Accademia di Belle Arti della sua città di origine, con all'attivo alcune mostre realizzate in luoghi militanti, Zehra è diventata un'artista contemporanea in carcere attivando le sue risorse più profonde, grazie alla palestra di formazione che è la prigionia delle detenute politiche, al lavoro collettivo, a quella che ha definito "la lotta contro la pigrizia della reclusione". Appena è stata liberata, dopo aver scontato tutti i giorni previsti dalla sentenza, è dovuta andare in esilio volontario e a Londra la aspettava una istallazione alla Tate Gallery. Nel giro di poco tempo è stata acclamata come una dei 100 artisti più influenti al mondo.

 

Conosciamo l'intrinseco senso di colpa che il modo del fumetto e dei fumettisti si portano addosso da sempre, per il quale è sempre opportuno puntualizzare che malgrado facciano fumetti, sono artisti, oppure che "ricordiamoci che il fumetto è arte", e via dicendo. Ecco, il libro di Zehra spiazza per questo, perché non si tratta come spesso è successo di un passaggio dal fumetto all'Arte (spesso senza ritorno, vedi ad esempio Marjane Satrapi oppure per rimanere in ambito italiano, Marcello Jori) perché il ritorno all'arte sequenziale viene visto come una condanna. Non voglio con questo dimenticare la stagione che va dai Metal Hurlant a quello che Francesca Alinovi definì il nuovo fumetto italiano, un momento di inestricabile energia e di ricerca che ancora non ha dissipato le sue particelle atomiche. Che sembrano tutte esplodere nelle pagine di questa Graphic, che non a caso esce in contemporanea in Francia e in Italia, creando come una saldatura di vicende artistiche che sembrano trovare una sintesi in questa opera. Doğan intuisce quello che è stato, pur non conoscendolo materialmente, provenendo da un paese che ha una importantissima tradizione di fumetto popolare, alternativa e di ricerca, che ha seguito però strade sostanzialmente proprie. Raccoglie queste intuizioni, creando pagine che sembrano combaciare con quanto sempre Alinovi scriveva proprio di Jori su Flash Art nel 1982, quando parlava di penetrazione, attraverso cunicoli ramificati come arterie di sangue, dentro al grembo della terra-utero materno. Una definizione che sembra perfetta per queste pagine.

 

Vorrei aggiungere infine un'ultima osservazione: questo libro è pieno di nomi e cognomi, di chi ha attraversato per colpa delle proprie idee, le porte della galera. Credo non sia un caso che sia edito proprio da Becco Giallo che è stata la prima casa editrice a dedicare una finestra importante, utilizzando il fumetto, alle vite e quindi ai nomi e ai cognomi di chi si è dedicato alla verità e giustizia. Così, come si fa nel primo giorno di primavera con Libera e che coincide con il Newroz, il capodanno curdo, ripetiamo questi nomi insieme al libro, in una forma di liturgia laica che preservi il senso di queste e questi testimoni dimenticati. La schiena di Zehra e le altre è una freccia, un ponte e un punto interrogativo per tutte noi.

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